
Partiamo dai fatti che costituiscono il presupposto di quest’opera. Milena Jesenskà era una giornalista e traduttrice, sposata ma a quanto pare non propriamente felice, Franz Kafka un uomo che aveva già un paio di relazioni fallite alle spalle e una cautela folle nell'accostarsi agli esseri umani. Una virgola spostata da Milena in una frase sembra determinare una lunga catena di reazioni in Franz, basta un giorno senza lettere per far presagire una catastrofe e l’uso di una parola piuttosto che un'altra fa la differenza tra una notte insonne e una accettabile.
Attraverso ogni singola lettera chi legge riesce a fare un passo nella mente del grande scrittore e ad assaporare l’amaro gusto delle sue angosce; perché è qualcosa di quasi visibile quel fumo scuro che si addensa intorno al petto dell’autore e non lo abbandona mai, quel male che lo corrode e che sembra concretizzarsi davvero con la malattia polmonare che lo porterà alla morte. Quella di Kafka sembra paura di vivere, o meglio Kafka sa che non gli è possibile gestire la vita nei suoi aspetti più banali come fanno tutti perché il minimo dettaglio finisce per sopraffarlo. Non sembra esserci una netta distinzione tra l’ordinario e lo straordinario nella vita di questo che a molti doveva apparire come un personaggio ben strano, forse alla stessa Milena, con la differenza che lei non si lascia spaventare, non scappa, ma scava, “fruga” come dice lo stesso Franz (o Frank come lo chiamava lei), esattamente come un oggetto affilato che penetri dentro la carne per saggiarne la consistenza. Ma l’incanto dell’avvicinamento e della compenetrazione non può che durare poco e non soltanto per la condizione di donna sposata di Milena. Kafka si definisce una “bestia silvestre”, un animale selvatico insomma