SESTO RISVEGLIO
Il telefono
suonò cinque, forse sei volte, prima che mi alzassi dal pavimento e andassi a
rispondere.
La voce di mia madre m’investì determinando l’immediata reazione delle mie
tempie doloranti.
- Tesoro, tutto bene? Perché non rispondevi?
Fissai per un istante il punto del pavimento dove ero stata distesa appena
trenta secondi prima. E poi il caos, caos ovunque.
- Scusa mamma… è solo che… che ero molto stanca e ho dormito tanto… più del
solito…
Mi massaggiai le tempie con le dita e sbadigliai.
- Oh lo sento cara! Hai fatto colazione?
- No mamma, te l’ho appena detto… dormivo e…
- E allora devi assolutamente correre a farla!
Dopo un sì che nascondeva appena la noia, ascoltai le svariate raccomandazioni
che stonavano decisamente con la mia età, i suoi saluti prolungati e
riagganciai.
Poggiai le spalle alla parete e mi lasciai scivolare fino a terra: sotto gli
occhi la mia casa sottosopra!
Com'era possibile che fossi stata capace di combinare quel disastro? Eppure
l’avevo fatto, ricordavo ogni singolo gesto dettato dalla rabbia, ogni oggetto
infranto, ogni pulsazione del mio essere in preda allo slancio distruttivo. E
alla fine cosa avevo fatto? Mi ero disposta al centro della mia opera, tutta
dolorante, e mi ero addormentata.
C’erano fogli di libri e quaderni strappati sparsi ovunque, bicchieri, tazze e
piatti sbriciolati, mobili danneggiati e, quelli che non erano danneggiati, non
erano al loro posto, come le sedie che erano finite tutte a gambe all'aria.
Cosa diavolo mi era preso? Ero una creatrice non una distruttrice! Guardai le
mie tele a terra, tutte distrutte, tagliate, sfondate.
Qual era il limite tra il creare e il distruggere? Spesso nella mia testa si
confondevano e, per poter creare, avevo bisogno di radere al suolo tutto il mio
mondo.
Ecco cos'era successo la sera prima, un sabato come tanti, a casa da sola come
al solito. Avevo preso il pennello in mano e l’avevo fissato inebetita per un
tempo indeterminato, proprio come ora contemplavo ciò che restava delle mie
cose; subito dopo, invece di intingerlo nel colore, mi ero ritrovata a
spezzarlo in due parti. Poi avevo sbattuto per terra la tela che si trovava sul
cavalletto… E così via in una colata libera di rabbia emersa da chissà quali
profondità, una rabbia primitiva, devastante, esaurita la quale, mi ero
ritrovata al centro della spirale dei cocci della mia vita, senza più un
briciolo di forza.
Accesi una sigaretta dopo aver ripescato il pacchetto da sotto un mucchio di
vestiti, precedentemente lavati e stirati, eppure gettati a terra come un
cumulo di stracci. Mi fecero pensare che non potevo permettermi di fare la
stessa fine, perché non ci sarebbero state delle braccia caritatevoli a tirarmi
su; non avrei avuto nessuno lì pronto a porre rimedio alle spiegazzature. No,
proprio non potevo permettermelo!
Per l’ennesima volta prendevo la rincorsa, mi precipitavo a perdifiato e con
gli occhi chiusi verso il baratro e, sull'orlo del precipizio, mi arrestavo.
Avevo dato un’occhiata giù, come tante volte, per poi voltare le spalle e
tornare indietro, fino al punto da dove avrei potuto prendere di nuovo la
rincorsa.
Finii la sigaretta e mi tirai su. Raccolsi il posacenere, e dopo quello
raccolsi i vestiti sparsi ovunque, poi rimisi al loro posto i libri e quei
quaderni di appunti che si erano salvati. Pezzo dopo pezzo rimisi in ordine il
mio appartamento devastato e riempii due sacchi della spazzatura di oggetti
irrimediabilmente danneggiati.
Fuori aveva iniziato a piovere da un po’; guardai la strada sotto la mia
finestra che, a una prima occhiata, mi era sembrata deserta. Ben presto, però,
mi resi conto di due ragazzi che attraversavano tranquillamente, tenendosi
sotto braccio. Due folli o due innamorati? Secondo alcuni la differenza era
nulla. Pensai che io, folle per amore, non lo ero mai stata e, forse, mai avrei
sperimentato un simile stato di grazia. Probabilmente non ero predisposta
all'amore, perché l’amore è una forma di sovrabbondanza e, a me, mancava
l’essenziale. Senza accorgermene avevo scarabocchiato dei cuoricini con le dita
sui vetri appannati dall'umidità: cancellai tutto col palmo della mano ed andai
a recuperare l’unica tela bianca che era rimasta intatta; la posizionai sul
cavalletto e la osservai in piedi a braccia incrociate, in attesa che da quel
bianco emergesse la figura che stavo cercando. Lo spazio prese forma: non una
figura nello spazio ma dello spazio, che esigeva di venire
alla luce. Lasciai che si cullasse ancora un po’ nella mia testa perché,
intanto, mi era tornata in mente la voce di mia madre che m’intimava di andare
a fare colazione.
Tirai fuori il latte dal frigo (che fortuna che non fosse finito ad imbiancare
le pareti!) e con esso quanto di più dolce fosse rimasto in dispensa: volevo
provare a creare artificialmente quella sovrabbondanza d’amore di sé che mi
avrebbe permesso di amare anche gli altri. L’artificialità è decisamente
sottovalutata, può rivelarsi una delle cose più piacevoli che esistano.
La colazione a base di zuccheri durò a lungo e, quando ebbi finito, notai che
la pioggia cadeva ormai esausta e stava per cedere il passo ad un timido sole.
Pensai che nel pomeriggio sarei potuta uscire, contrariamente ad ogni proposito
di reclusione, tanto più che avevo bisogno di ricomprare il materiale che avevo
fatto a pezzi.
Possibilità su possibilità mi si accumularono nella testa, come accadeva sempre
dopo uno dei miei momenti distruttivi: era come svuotarsi, fare piazza pulita
di tutto e lasciare, quindi, uno spazio vuoto che accogliesse tutte quelle
possibilità.
Il vuoto, nella mia testa, era potenza pura e i miei atti distruttivi, che
miravano a crearlo, non erano null'altro che una malcelata volontà di potenza.
Dipingevo spazi vuoti dopo essermi svuotata, dipingevo la possibilità e mai il
mero residuo attuale di tale possibilità.
Messe da parte le considerazioni di ordine filosofico, mi sistemai per bene,
indossai l’impermeabile ed uscii subito, chiudendomi la porta di casa dietro le
spalle.