venerdì 22 marzo 2013

Bugie senza colpa: quinto risveglio



QUINTO RISVEGLIO

Finii per svegliarmi al ritmo incalzante delle gocce d’acqua che tamburellavano sul tettuccio dell’auto: tanti piccoli tamburi tribali! E se fuori il rumore ricordava quello di una serie di bonghi regolarmente percossi, nella mia testa c’era un’intera orchestra scoordinata. Sentivo le tempie pulsarmi e l’alcool della sera prima mi aveva lasciato un pessimo sapore in bocca. Ero al posto di guida e mi piegai in avanti fino a toccare il volante con la testa.
Fu a quel punto che mi accorsi della tipa che dormiva scomposta sul sedile di fianco; la guardai bene: lunghi capelli di un castano chiarissimo, una bocca con labbra sottili dalla quale colava un rivolo di saliva, trucco devastato, vestiti stropicciati…
Chi cavolo era quella?!
Mi passai le mani tra i capelli che trovai completamente induriti dal gel della sera prima: avevo assolutamente bisogno di una doccia!
Dopo qualche minuto di riflessione mi decisi a svegliare la ragazza che ronfava della grossa sul sedile del passeggero ma, non appena la toccai, cacciò un urlo stridulo e fece un balzo tale che per poco non si schiantò con la testa contro il tettuccio dell’auto.
- Ehi! Stai tranquilla! – le urlai con le mani alzate, al fine di dimostrare tutte le mie buone intenzioni.
- Tu chi sei? – mi urlò per tutta risposta.
- Visto che questa è la mia auto questa domanda dovrei farla io a te, non credi?
Tacque.
- Che ci fai nella mia macchina? Non ti ho… incontrata ieri in quel locale, vero?
- Non mi sembra di averti visto lì – rispose lei, come a voler confermare che lì c’era stata anche lei in effetti.
- Ho capito. Quindi com’è andata?
- Beh, ti ho visto che dormivi in auto, l’auto era aperta e ho pensato che non avrei dato fastidio se mi fossi messa a dormire un po’ anch’io…
- Ah, ecco… - risposi con non poca perplessità; tuttavia avevo fretta di tornare a casa e rilassarmi, quindi misi a tacere i miei dubbi, presi per buone le sue risposte e le chiesi dove abitasse per accompagnarla a casa. Mi rispose indicando la palazzina di fronte al locale davanti al quale eravamo parcheggiati. La perplessità tornò di nuovo a bussare alle porte della mia testa.
- Vuoi che ti porti in braccio fino a casa allora? – le domandai ironicamente.
Ignoravo che, quando le giornate iniziano in maniera assurda, tutto sembra volto poi a confermare quell’assurdità: la ragazza fece cenno di sì con la testa.
Scoppiai a ridere, dopodiché scesi e andai ad aprirle lo sportello, stiracchiandomi sotto la pioggia battente mentre facevo il giro della macchina.
- Non credo che riuscirei a portarti in braccio fino a casa, sono fuori allenamento… Però posso portarti sotto braccio eh!
A quel punto si decise a prendere la mano che le stavo porgendo e scese; in piedi sembrava più piccola di quanto non fosse apparsa ad una prima occhiata in macchina.
Mi prese effettivamente sotto braccio e attraversammo la strada, incuranti della pioggia che continuava a cadere.
- Ieri sera ho abbandonato la mia migliore amica ad una festa per seguire un ragazzo nel locale qui di fronte – mi disse senza alcun preavviso e senza che io le avessi chiesto nulla.
La incitai a continuare.
- Ho provato a chiamarla ma non risponde al cellulare. Ora sono delusa perché il ragazzo mi ha piantata in asso a metà serata e mi sento in colpa perché non so che fine abbia fatto la mia amica.
Ho l’abitudine della sincerità: brutto vizio in certi contesti!
- Direi che ti sei comportata da schifo!
Corrugò la fronte e cambiò tono.
- Lo so! Non c’era bisogno che me lo dicessi anche tu!
- Non te la prendere, ti volevo mettere di fronte alla realtà. Ѐ probabile che la tua amica sia incazzata di brutto a quest’ora e che per questo non risponda al telefono.
- Ѐ probabile – rispose con un tono già mutato, mentre entravamo nella palazzina dove abitava, bagnati per tre quarti.
L’ascensore probabilmente era rotto, perché prese a salire lentamente le scale senza neppure guardarlo: scale anonime, contornate da pareti grigiastre, come si addice ad un luogo di transito che si rispetti, un luogo dove nessuno vorrebbe restare più a lungo dello stretto indispensabile.
Salivo, e intanto mi chiedevo come fosse potuto accadere che, appena sveglio, mi fossi lasciato coinvolgere in quella faccenda surreale. Salivamo, e sembravamo due anziani pieni di dolori, tanto che pensai che forse sarebbe stato più semplice se l’avessi portata a casa in braccio per davvero.
- A che piano abiti?
- Secondo.
Tirai un sospiro di sollievo: quelle scale sembravano allungarsi ad ogni passo e, se mi avesse detto di abitare al quarto o quinto piano, l’avrei mollata lì a continuare da sola quella solenne ascesa, per fuggire il più lontano possibile; ma, arrivati a metà percorso, si fermò.
- Meglio se ci salutiamo qui, tra poco dovrò vedermela con i miei genitori, che ti assicuro saranno molto più incazzati della mia amica!
- Come preferisci – le risposi, cercando di assumere un’espressione contrita, mentre dentro, in realtà, fui più che sollevato.
Lei riprese la salita, io aspettai qualche secondo e poi mi precipitai giù, saltando due gradini per volta.
Uscendo in strada, sotto una pioggia più leggera, pensai che non le avevo neppure chiesto come si chiamasse; subito dopo, come in un battibecco con me stesso, mi dissi che neppure mi interessava saperlo in fondo.
Nell’atteggiamento di quella ragazza avevo letto una vena di squilibrio che m’inquietava non poco: la cosa mi spaventava, tuttavia mi spavantava ancora di più il fatto che, quella stessa vena, avesse suscitato su due piedi la mia simpatia. Generalmente, quando fuggiamo, lo facciamo da qualcosa che abbiamo dentro, dal riflesso esterno di qualcosa che abbiamo dentro per la precisione.
Saltai in macchina e, prima di mettere in moto, lanciai un’occhiata al sedile vuoto. Per sicurezza guardai anche i sedili posteriori: ormai mi aspettavo qualsiasi cosa!
Di fronte al vuoto risi di me stesso e partii.

Nessun commento:

Posta un commento