sabato 23 marzo 2013

Bugie senza colpa: sesto risveglio

SESTO RISVEGLIO

Il telefono suonò cinque, forse sei volte, prima che mi alzassi dal pavimento e andassi a rispondere.
La voce di mia madre m’investì determinando l’immediata reazione delle mie tempie doloranti.
- Tesoro, tutto bene? Perché non rispondevi?
Fissai per un istante il punto del pavimento dove ero stata distesa appena trenta secondi prima. E poi il caos, caos ovunque.
- Scusa mamma… è solo che… che ero molto stanca e ho dormito tanto… più del solito…
Mi massaggiai le tempie con le dita e sbadigliai.
- Oh lo sento cara! Hai fatto colazione?
- No mamma, te l’ho appena detto… dormivo e…
- E allora devi assolutamente correre a farla!
Dopo un sì che nascondeva appena la noia, ascoltai le svariate raccomandazioni che stonavano decisamente con la mia età, i suoi saluti prolungati e riagganciai.
Poggiai le spalle alla parete e mi lasciai scivolare fino a terra: sotto gli occhi la mia casa sottosopra!
Com'era possibile che fossi stata capace di combinare quel disastro? Eppure l’avevo fatto, ricordavo ogni singolo gesto dettato dalla rabbia, ogni oggetto infranto, ogni pulsazione del mio essere in preda allo slancio distruttivo. E alla fine cosa avevo fatto? Mi ero disposta al centro della mia opera, tutta dolorante, e mi ero addormentata.
C’erano fogli di libri e quaderni strappati sparsi ovunque, bicchieri, tazze e piatti sbriciolati, mobili danneggiati e, quelli che non erano danneggiati, non erano al loro posto, come le sedie che erano finite tutte a gambe all'aria.
Cosa diavolo mi era preso? Ero una creatrice non una distruttrice! Guardai le mie tele a terra, tutte distrutte, tagliate, sfondate.
Qual era il limite tra il creare e il distruggere? Spesso nella mia testa si confondevano e, per poter creare, avevo bisogno di radere al suolo tutto il mio mondo.
Ecco cos'era successo la sera prima, un sabato come tanti, a casa da sola come al solito. Avevo preso il pennello in mano e l’avevo fissato inebetita per un tempo indeterminato, proprio come ora contemplavo ciò che restava delle mie cose; subito dopo, invece di intingerlo nel colore, mi ero ritrovata a spezzarlo in due parti. Poi avevo sbattuto per terra la tela che si trovava sul cavalletto… E così via in una colata libera di rabbia emersa da chissà quali profondità, una rabbia primitiva, devastante, esaurita la quale, mi ero ritrovata al centro della spirale dei cocci della mia vita, senza più un briciolo di forza.
Accesi una sigaretta dopo aver ripescato il pacchetto da sotto un mucchio di vestiti, precedentemente lavati e stirati, eppure gettati a terra come un cumulo di stracci. Mi fecero pensare che non potevo permettermi di fare la stessa fine, perché non ci sarebbero state delle braccia caritatevoli a tirarmi su; non avrei avuto nessuno lì pronto a porre rimedio alle spiegazzature. No, proprio non potevo permettermelo!
Per l’ennesima volta prendevo la rincorsa, mi precipitavo a perdifiato e con gli occhi chiusi verso il baratro e, sull'orlo del precipizio, mi arrestavo. Avevo dato un’occhiata giù, come tante volte, per poi voltare le spalle e tornare indietro, fino al punto da dove avrei potuto prendere di nuovo la rincorsa.
Finii la sigaretta e mi tirai su. Raccolsi il posacenere, e dopo quello raccolsi i vestiti sparsi ovunque, poi rimisi al loro posto i libri e quei quaderni di appunti che si erano salvati. Pezzo dopo pezzo rimisi in ordine il mio appartamento devastato e riempii due sacchi della spazzatura di oggetti irrimediabilmente danneggiati.
Fuori aveva iniziato a piovere da un po’; guardai la strada sotto la mia finestra che, a una prima occhiata, mi era sembrata deserta. Ben presto, però, mi resi conto di due ragazzi che attraversavano tranquillamente, tenendosi sotto braccio. Due folli o due innamorati? Secondo alcuni la differenza era nulla. Pensai che io, folle per amore, non lo ero mai stata e, forse, mai avrei sperimentato un simile stato di grazia. Probabilmente non ero predisposta all'amore, perché l’amore è una forma di sovrabbondanza e, a me, mancava l’essenziale. Senza accorgermene avevo scarabocchiato dei cuoricini con le dita sui vetri appannati dall'umidità: cancellai tutto col palmo della mano ed andai a recuperare l’unica tela bianca che era rimasta intatta; la posizionai sul cavalletto e la osservai in piedi a braccia incrociate, in attesa che da quel bianco emergesse la figura che stavo cercando. Lo spazio prese forma: non una figura nello spazio ma dello spazio, che esigeva di venire alla luce. Lasciai che si cullasse ancora un po’ nella mia testa perché, intanto, mi era tornata in mente la voce di mia madre che m’intimava di andare a fare colazione.
Tirai fuori il latte dal frigo (che fortuna che non fosse finito ad imbiancare le pareti!) e con esso quanto di più dolce fosse rimasto in dispensa: volevo provare a creare artificialmente quella sovrabbondanza d’amore di sé che mi avrebbe permesso di amare anche gli altri. L’artificialità è decisamente sottovalutata, può rivelarsi una delle cose più piacevoli che esistano.
La colazione a base di zuccheri durò a lungo e, quando ebbi finito, notai che la pioggia cadeva ormai esausta e stava per cedere il passo ad un timido sole. Pensai che nel pomeriggio sarei potuta uscire, contrariamente ad ogni proposito di reclusione, tanto più che avevo bisogno di ricomprare il materiale che avevo fatto a pezzi.
Possibilità su possibilità mi si accumularono nella testa, come accadeva sempre dopo uno dei miei momenti distruttivi: era come svuotarsi, fare piazza pulita di tutto e lasciare, quindi, uno spazio vuoto che accogliesse tutte quelle possibilità.
Il vuoto, nella mia testa, era potenza pura e i miei atti distruttivi, che miravano a crearlo, non erano null'altro che una malcelata volontà di potenza.
Dipingevo spazi vuoti dopo essermi svuotata, dipingevo la possibilità e mai il mero residuo attuale di tale possibilità.
Messe da parte le considerazioni di ordine filosofico, mi sistemai per bene, indossai l’impermeabile ed uscii subito, chiudendomi la porta di casa dietro le spalle.

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