domenica 18 maggio 2014

Come da programma

Il breve racconto che segue è stato già pubblicato su Fingerbooks (qui), ma lo ripropongo anche in questa sede.

Come da programma


Ai tempi del liceo tra i ragazzi della mia età circolava una leggenda metropolitana, tramandata di generazione in generazione, una leggenda che, superata la maggiore età, quasi tutti dimenticavano, lasciando i più giovani a lambiccarcisi il cervello quando non avevano nulla di meglio da fare.  
Forse per la pessima abitudine di riflettere troppo, forse per qualche elemento rimasto incastrato da qualche parte nelle profondità del mio inconscio, a vent'anni suonati quella leggenda ancora non usciva dalla mia testa. Parlava di una principessa addormentata quella storia, ma non di una di quelle che si trovano nelle favole, che aspettano il bacio del principe per risvegliarsi; se la leggenda fosse stata vera chiunque si sarebbe guardato bene dal destare la bella fanciulla dal suo sonno, perché la principessa sognava e la città in cui vivevamo e noi tutti eravamo il suo sogno. Questi i punti certi, seguivano poi una miriade di varianti relative ai dettagli: chi era la principessa, di cosa era principessa, perché dormiva e perché doveva sognare proprio la nostra realtà? Una delle versioni più affidabili che circolavano in rete rispondeva in maniera a dir poco inquietante a quelle domande: la principessa altri non era che una giovane dalle straordinarie capacità, che aveva trascorso la sua giovinezza chiusa in un laboratorio alla ricerca dell’innovazione tecnica del secolo, quella che le consentisse di sconfiggere la morte. La principessa della tecnica, non trovavo nome migliore per definirla, era rimasta però vittima di uno dei sui stessi esperimenti, aveva provato su se stessa una strana macchina che, cercando di perpetuare la vita, simulava la morte; la sua coscienza era precipitata quindi in un luogo tale solo in apparenza, perché in fin dei conti quella macchina l’aveva relegata a vivere all'interno della propria coscienza, congelando il resto delle sue funzioni vitali.                
Per me quella leggenda era una sorta di richiamo, senza che capissi esattamente il perché di tanto in tanto ci ripensavo ed ogni volta mi restava la netta sensazione di aver qualcosa da fare ma di aver dimenticato cosa.              
Una sera, tornando a casa dal lavoro, ci ripensavo ormai da una decina di minuti, quando un grosso gatto sporco, sebbene il marciapiede fosse quasi totalmente sgombro, mi sfrecciò tra le gambe interrompendo il corso dei miei pensieri; il sole stava tramontando e riuscii a vedere appena che la grossa bestia, dopo essersi infilata nel vicolo cieco alla mia destra, scomparve dietro al muro che le sbarrava la strada. Lo aveva magicamente attraversato! Mi sfregai gli occhi con le mani chiuse a pugno e mi decisi, dopo non pochi ripensamenti, ad avvicinarmi per esaminare il fenomeno da vicino ed eventualmente accertarmi di aver preso una svista: nessuna svista, quando allungai la mano verso il muro, mi resi conto che non c’era effettivamente nessun muro. In quel preciso istante mi tornò quella sensazione che conoscevo ormai bene: avevo qualcosa da fare e, per la prima volta, ero dove dovevo essere per farlo. Attraversai il muro con tutto il corpo e quando fui dall'altra parte mi trovai di fronte uno spazio ampio e vuoto, ma non ero più all'aperto: sembrava un parcheggio sotterraneo quel luogo, illuminato solo da qualche luce al neon qua e là. Pensai che, se quelle luci non ci fossero state, il posto sarebbe apparso più rassicurante. Mi mossi, attratto da una luce più intensa in fondo a quell'enorme spazio, ma a metà strada mi paralizzai: come delle luci di segnalazione dei faretti appesi al soffitto indicavano il corpo di una ragazza riversa sul pavimento di cemento. Accorsi in suo soccorso, vincendo il terrore. Mi chinai su di lei e non sembrava ferita, semplicemente dava l’impressione di essere addormentata. Le poggiai un orecchio sul petto per ascoltare se il cuore stesse ancora battendo; non feci in tempo a carpire il primo battito che sentii una mano posarsi delicatamente tra i miei capelli e costringermi a restare in quella posizione per qualche secondo.
«Come da programma sei qui» disse la ragazza.              
Era sveglia e probabilmente ero stato io a sottrarla al suo sonno.           
Mi alzai di scatto e lei iniziò a riaprire gli occhi lentamente e ad alzarsi: era bellissima e il suo corpo iniziò ad emanare luce man mano che sembrava riprendere i sensi. Lo spazio lì intorno prese a tremare ma lei non fece una piega.    
«Chi sei?» domandai spaventato.          
«Chi sono io lo sai bene, quello che non sai è chi sei tu» rispose sorridendo.    
«E chi sono io allora?»  
«Sei l’elemento del mio sogno, programmato, sin dall'inizio, col fine di interrompere il mio esperimento».
Quando me lo disse fu come se lo avessi sempre saputo; la guardai inebetito, poi guardai lo spazio intorno a me che si stava letteralmente sgretolando. Restò alla fine solo un cerchio di suolo intorno a me e a lei ma anche quello si restrinse gradualmente, fino ad arrivare al mio corpo che, senza alcun dolore, si sgretolò come il resto. Rimase solo la principessa alla fine, sospesa in quel vuoto, ma vi restò solo per cinque secondi, poi si risvegliò completamente. Alla fine di tutto lei restò lì, da tutt'altra parte avrebbe detto qualcuno, completamente nuda e con tanti fasci di fili elettrici intorno alla testa a farle da corona. Una voce non umana, proveniente dall'unità centrale della macchina che le faceva quasi da involucro, decretò: «Esperimento concluso!».

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