venerdì 23 maggio 2014

Sette minuti


Come il racconto precedente anche questo, ancora più breve, è stato precedentemente pubblicato su Fingerbooks (qui). Si intitola "Sette minuti" ma si legge in meno...


Sette minuti
Non aveva il coraggio di morire ma tanto meno quello di vivere; si ritrovava così, ormai da diversi mesi, sospeso nel bel mezzo del vuoto esistenziale, senza che di quello strano tunnel si vedesse la fine. Ma la cosa più singolare era un’altra: non era stato un errore a condurlo lì, non c’era stata deviazione che giustificasse quell'impasse. Quella che sembrava la più giusta delle vie l’aveva condotto lì, la via giusta, per lui, si era rivelata un vicolo cieco.                  
Dopo aver girato a vuoto per un paio d’ore, rientrò a casa. Gli sarebbe piaciuto trovare il silenzio aprendo la porta ma sapeva benissimo che così non poteva essere, c’era il chiasso di due fratelli ad attenderlo, c’erano le discussioni dei genitori, c’era l’onnipresente televisione. Certi giorni gli sembrava di affogare nel rumore della sua casa, un rumore che in qualche modo gli ricordava una vita dalla quale era escluso, un’operatività che a lui era preclusa. Quello che vive si fa sentire, almeno così gli avevano detto. Che doveva pensare di se stesso che attraversava la vita in silenzio?   
Entrò in casa come un gatto per poi raggiungere la sua camera: tre quarti della sua vita ormai si svolgevano tra quelle quattro mura, per lo più nella semioscurità. Quando si chiuse la porta alle spalle, senza che una sola domanda gli fosse stata rivolta, ancor meglio, senza che nessuno si fosse minimamente accorto del suo rientro, tirò un sospiro di sollievo.      
Passati un paio di minuti, lentamente si tolse la giacca, poi le scarpe, infine si sbottonò la camicia; sperava quasi di allentare in quel modo il nodo che gli stringeva lo stomaco ma non funzionò affatto.      
Alla fine aprì la finestra e l’aria fredda della serata di fine inverno gli ferì il viso e il petto. Nel giro di pochi secondi fu sul davanzale, in piedi, a guardar giù: abitava al settimo piano.       
Ventisei erano i suoi anni, venti gli anni trascorsi nel complesso tra i banchi, centodieci e lode il voto con cui aveva concluso la sua carriera universitaria, zero le ore di lavoro regolarmente retribuite, sette i minuti trascorsi da quando era salito sul davanzale della sua finestra.     
Con fare incerto si girò e saltò di nuovo dentro: non aveva il coraggio di vivere, o forse sarebbe stato più corretto dire che un qualcuno non meglio definito non gliene dava la possibilità, ma non aveva neppure la forza di morire.

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