Il breve racconto che segue è stato già pubblicato su Fingerbooks (qui), ma lo ripropongo anche in questa sede.
Come da programma
Ai tempi del liceo tra i ragazzi
della mia età circolava una leggenda metropolitana, tramandata di generazione
in generazione, una leggenda che, superata la maggiore età, quasi tutti
dimenticavano, lasciando i più giovani a lambiccarcisi il cervello quando non
avevano nulla di meglio da fare.
Forse per la pessima abitudine di riflettere troppo, forse per qualche elemento
rimasto incastrato da qualche parte nelle profondità del mio inconscio, a
vent'anni suonati quella leggenda ancora non usciva dalla mia testa. Parlava di
una principessa addormentata quella storia, ma non di una di quelle che si
trovano nelle favole, che aspettano il bacio del principe per risvegliarsi; se
la leggenda fosse stata vera chiunque si sarebbe guardato bene dal destare la
bella fanciulla dal suo sonno, perché la principessa sognava e la città in cui
vivevamo e noi tutti eravamo il suo sogno. Questi i punti certi, seguivano poi
una miriade di varianti relative ai dettagli: chi era la principessa, di cosa
era principessa, perché dormiva e perché doveva sognare proprio la nostra
realtà? Una delle versioni più affidabili che circolavano in rete rispondeva in
maniera a dir poco inquietante a quelle domande: la principessa altri non era
che una giovane dalle straordinarie capacità, che aveva trascorso la sua
giovinezza chiusa in un laboratorio alla ricerca dell’innovazione tecnica del
secolo, quella che le consentisse di sconfiggere la morte. La principessa della
tecnica, non trovavo nome migliore per definirla, era rimasta però vittima di
uno dei sui stessi esperimenti, aveva provato su se stessa una strana macchina
che, cercando di perpetuare la vita, simulava la morte; la sua coscienza era
precipitata quindi in un luogo tale solo in apparenza, perché in fin dei conti
quella macchina l’aveva relegata a vivere all'interno della propria coscienza,
congelando il resto delle sue funzioni vitali.
Per me quella leggenda era una sorta di richiamo, senza che capissi esattamente
il perché di tanto in tanto ci ripensavo ed ogni volta mi restava la netta sensazione
di aver qualcosa da fare ma di aver dimenticato cosa.
Una sera, tornando a casa dal lavoro, ci ripensavo ormai da una decina di
minuti, quando un grosso gatto sporco, sebbene il marciapiede fosse quasi
totalmente sgombro, mi sfrecciò tra le gambe interrompendo il corso dei miei
pensieri; il sole stava tramontando e riuscii a vedere appena che la grossa
bestia, dopo essersi infilata nel vicolo cieco alla mia destra, scomparve
dietro al muro che le sbarrava la strada. Lo aveva magicamente attraversato! Mi
sfregai gli occhi con le mani chiuse a pugno e mi decisi, dopo non pochi
ripensamenti, ad avvicinarmi per esaminare il fenomeno da vicino ed
eventualmente accertarmi di aver preso una svista: nessuna svista, quando
allungai la mano verso il muro, mi resi conto che non c’era effettivamente
nessun muro. In quel preciso istante mi tornò quella sensazione che conoscevo
ormai bene: avevo qualcosa da fare e, per la prima volta, ero dove dovevo
essere per farlo. Attraversai il muro con tutto il corpo e quando fui
dall'altra parte mi trovai di fronte uno spazio ampio e vuoto, ma non ero più
all'aperto: sembrava un parcheggio sotterraneo quel luogo, illuminato solo da
qualche luce al neon qua e là. Pensai che, se quelle luci non ci fossero state,
il posto sarebbe apparso più rassicurante. Mi mossi, attratto da una luce più
intensa in fondo a quell'enorme spazio, ma a metà strada mi paralizzai: come
delle luci di segnalazione dei faretti appesi al soffitto indicavano il corpo
di una ragazza riversa sul pavimento di cemento. Accorsi in suo soccorso,
vincendo il terrore. Mi chinai su di lei e non sembrava ferita, semplicemente
dava l’impressione di essere addormentata. Le poggiai un orecchio sul petto per
ascoltare se il cuore stesse ancora battendo; non feci in tempo a carpire il
primo battito che sentii una mano posarsi delicatamente tra i miei capelli e
costringermi a restare in quella posizione per qualche secondo.
«Come da programma sei qui» disse la ragazza.
Era sveglia e probabilmente ero stato io a sottrarla al suo sonno.
Mi alzai di scatto e lei iniziò a riaprire gli occhi lentamente e ad alzarsi:
era bellissima e il suo corpo iniziò ad emanare luce man mano che sembrava
riprendere i sensi. Lo spazio lì intorno prese a tremare ma lei non fece una
piega.
«Chi sei?» domandai spaventato.
«Chi sono io lo sai bene, quello che non sai è chi sei tu» rispose sorridendo.
«E chi sono io allora?»
«Sei l’elemento del mio sogno, programmato, sin dall'inizio, col fine di
interrompere il mio esperimento».
Quando me lo disse fu come se lo avessi sempre saputo; la guardai inebetito,
poi guardai lo spazio intorno a me che si stava letteralmente sgretolando.
Restò alla fine solo un cerchio di suolo intorno a me e a lei ma anche quello
si restrinse gradualmente, fino ad arrivare al mio corpo che, senza alcun
dolore, si sgretolò come il resto. Rimase solo la principessa alla fine,
sospesa in quel vuoto, ma vi restò solo per cinque secondi, poi si risvegliò
completamente. Alla fine di tutto lei restò lì, da tutt'altra parte avrebbe detto qualcuno,
completamente nuda e con tanti fasci di fili elettrici intorno alla testa a
farle da corona. Una voce non umana, proveniente dall'unità centrale della
macchina che le faceva quasi da involucro, decretò: «Esperimento concluso!».