venerdì 30 maggio 2014

TFA sì, TFA no


Per chi come me si ritrova in tasca una laurea in Filosofia (et similia...) e permane da mesi, o anni in alcuni casi, nel misero stato di "disoccupato", questo periodo è quello della valanga di notizie relative allo stramaledetto TFA. Vige ultimamente l'imperativo morale di provare questo concorso che, già ad una prima occhiata, pare una gran fregatura da capo a piedi, a partire dal prezzo esorbitante: diciamocela tutta, se pure uno avesse 3000 euro in contanti nascosti sotto il cuscino, stento a credere che li tirerebbe fuori volentieri per un concorso che, se tutto va bene, ti garantisce un bel po' di anni di precariato! 
Non parliamo neppure, poi, delle famose domande che, a quanto pare, sembrano scelte in base al principio "apro l'enciclopedia a una pagina a caso e faccio una domanda sul primo nome della terza colonna". 
La cosa più fastidiosa, però, è che, coloro che si permettono di dire (e io sono tra loro) che NON HANNO NESSUNA INTENZIONE DI REGALARE SOLDI ALLO STATO CON IL TFA, si sentono rispondere sempre la stessa cosa: "Sì ma è una possibilità, se te la lasci sfuggire poi potresti pentirtene!" 
Passiamo ad una breve analisi filosofica del fenomeno: per quale arcano motivo una persona dovrebbe cogliere al volo TUTTE le possibilità che le si parano davanti? Perché non è possibile SCEGLIERE, SELEZIONARE soltanto quelle che  interessano davvero senza per questo essere additati come degli allocchi che se la fanno fare sotto il naso dagli eventi? 
Sembra che il panico da crisi abbia reso tutti incapaci di seguire un percorso coerente, fatto di scelte consapevoli; la paura di restare senza un lavoro per essere stati troppo schizzinosi tormenta quasi tutti. La parola SCELTA sembra che sia diventata tabù e l'uomo non è più l'essere che sceglie come vivere ma l'animale che è costretto ad ingurgitare ogni misera possibilità che gli si versa addosso dall'alto.

venerdì 23 maggio 2014

Sette minuti


Come il racconto precedente anche questo, ancora più breve, è stato precedentemente pubblicato su Fingerbooks (qui). Si intitola "Sette minuti" ma si legge in meno...


Sette minuti
Non aveva il coraggio di morire ma tanto meno quello di vivere; si ritrovava così, ormai da diversi mesi, sospeso nel bel mezzo del vuoto esistenziale, senza che di quello strano tunnel si vedesse la fine. Ma la cosa più singolare era un’altra: non era stato un errore a condurlo lì, non c’era stata deviazione che giustificasse quell'impasse. Quella che sembrava la più giusta delle vie l’aveva condotto lì, la via giusta, per lui, si era rivelata un vicolo cieco.                  
Dopo aver girato a vuoto per un paio d’ore, rientrò a casa. Gli sarebbe piaciuto trovare il silenzio aprendo la porta ma sapeva benissimo che così non poteva essere, c’era il chiasso di due fratelli ad attenderlo, c’erano le discussioni dei genitori, c’era l’onnipresente televisione. Certi giorni gli sembrava di affogare nel rumore della sua casa, un rumore che in qualche modo gli ricordava una vita dalla quale era escluso, un’operatività che a lui era preclusa. Quello che vive si fa sentire, almeno così gli avevano detto. Che doveva pensare di se stesso che attraversava la vita in silenzio?   
Entrò in casa come un gatto per poi raggiungere la sua camera: tre quarti della sua vita ormai si svolgevano tra quelle quattro mura, per lo più nella semioscurità. Quando si chiuse la porta alle spalle, senza che una sola domanda gli fosse stata rivolta, ancor meglio, senza che nessuno si fosse minimamente accorto del suo rientro, tirò un sospiro di sollievo.      
Passati un paio di minuti, lentamente si tolse la giacca, poi le scarpe, infine si sbottonò la camicia; sperava quasi di allentare in quel modo il nodo che gli stringeva lo stomaco ma non funzionò affatto.      
Alla fine aprì la finestra e l’aria fredda della serata di fine inverno gli ferì il viso e il petto. Nel giro di pochi secondi fu sul davanzale, in piedi, a guardar giù: abitava al settimo piano.       
Ventisei erano i suoi anni, venti gli anni trascorsi nel complesso tra i banchi, centodieci e lode il voto con cui aveva concluso la sua carriera universitaria, zero le ore di lavoro regolarmente retribuite, sette i minuti trascorsi da quando era salito sul davanzale della sua finestra.     
Con fare incerto si girò e saltò di nuovo dentro: non aveva il coraggio di vivere, o forse sarebbe stato più corretto dire che un qualcuno non meglio definito non gliene dava la possibilità, ma non aveva neppure la forza di morire.

domenica 18 maggio 2014

Come da programma

Il breve racconto che segue è stato già pubblicato su Fingerbooks (qui), ma lo ripropongo anche in questa sede.

Come da programma


Ai tempi del liceo tra i ragazzi della mia età circolava una leggenda metropolitana, tramandata di generazione in generazione, una leggenda che, superata la maggiore età, quasi tutti dimenticavano, lasciando i più giovani a lambiccarcisi il cervello quando non avevano nulla di meglio da fare.  
Forse per la pessima abitudine di riflettere troppo, forse per qualche elemento rimasto incastrato da qualche parte nelle profondità del mio inconscio, a vent'anni suonati quella leggenda ancora non usciva dalla mia testa. Parlava di una principessa addormentata quella storia, ma non di una di quelle che si trovano nelle favole, che aspettano il bacio del principe per risvegliarsi; se la leggenda fosse stata vera chiunque si sarebbe guardato bene dal destare la bella fanciulla dal suo sonno, perché la principessa sognava e la città in cui vivevamo e noi tutti eravamo il suo sogno. Questi i punti certi, seguivano poi una miriade di varianti relative ai dettagli: chi era la principessa, di cosa era principessa, perché dormiva e perché doveva sognare proprio la nostra realtà? Una delle versioni più affidabili che circolavano in rete rispondeva in maniera a dir poco inquietante a quelle domande: la principessa altri non era che una giovane dalle straordinarie capacità, che aveva trascorso la sua giovinezza chiusa in un laboratorio alla ricerca dell’innovazione tecnica del secolo, quella che le consentisse di sconfiggere la morte. La principessa della tecnica, non trovavo nome migliore per definirla, era rimasta però vittima di uno dei sui stessi esperimenti, aveva provato su se stessa una strana macchina che, cercando di perpetuare la vita, simulava la morte; la sua coscienza era precipitata quindi in un luogo tale solo in apparenza, perché in fin dei conti quella macchina l’aveva relegata a vivere all'interno della propria coscienza, congelando il resto delle sue funzioni vitali.                
Per me quella leggenda era una sorta di richiamo, senza che capissi esattamente il perché di tanto in tanto ci ripensavo ed ogni volta mi restava la netta sensazione di aver qualcosa da fare ma di aver dimenticato cosa.              
Una sera, tornando a casa dal lavoro, ci ripensavo ormai da una decina di minuti, quando un grosso gatto sporco, sebbene il marciapiede fosse quasi totalmente sgombro, mi sfrecciò tra le gambe interrompendo il corso dei miei pensieri; il sole stava tramontando e riuscii a vedere appena che la grossa bestia, dopo essersi infilata nel vicolo cieco alla mia destra, scomparve dietro al muro che le sbarrava la strada. Lo aveva magicamente attraversato! Mi sfregai gli occhi con le mani chiuse a pugno e mi decisi, dopo non pochi ripensamenti, ad avvicinarmi per esaminare il fenomeno da vicino ed eventualmente accertarmi di aver preso una svista: nessuna svista, quando allungai la mano verso il muro, mi resi conto che non c’era effettivamente nessun muro. In quel preciso istante mi tornò quella sensazione che conoscevo ormai bene: avevo qualcosa da fare e, per la prima volta, ero dove dovevo essere per farlo. Attraversai il muro con tutto il corpo e quando fui dall'altra parte mi trovai di fronte uno spazio ampio e vuoto, ma non ero più all'aperto: sembrava un parcheggio sotterraneo quel luogo, illuminato solo da qualche luce al neon qua e là. Pensai che, se quelle luci non ci fossero state, il posto sarebbe apparso più rassicurante. Mi mossi, attratto da una luce più intensa in fondo a quell'enorme spazio, ma a metà strada mi paralizzai: come delle luci di segnalazione dei faretti appesi al soffitto indicavano il corpo di una ragazza riversa sul pavimento di cemento. Accorsi in suo soccorso, vincendo il terrore. Mi chinai su di lei e non sembrava ferita, semplicemente dava l’impressione di essere addormentata. Le poggiai un orecchio sul petto per ascoltare se il cuore stesse ancora battendo; non feci in tempo a carpire il primo battito che sentii una mano posarsi delicatamente tra i miei capelli e costringermi a restare in quella posizione per qualche secondo.
«Come da programma sei qui» disse la ragazza.              
Era sveglia e probabilmente ero stato io a sottrarla al suo sonno.           
Mi alzai di scatto e lei iniziò a riaprire gli occhi lentamente e ad alzarsi: era bellissima e il suo corpo iniziò ad emanare luce man mano che sembrava riprendere i sensi. Lo spazio lì intorno prese a tremare ma lei non fece una piega.    
«Chi sei?» domandai spaventato.          
«Chi sono io lo sai bene, quello che non sai è chi sei tu» rispose sorridendo.    
«E chi sono io allora?»  
«Sei l’elemento del mio sogno, programmato, sin dall'inizio, col fine di interrompere il mio esperimento».
Quando me lo disse fu come se lo avessi sempre saputo; la guardai inebetito, poi guardai lo spazio intorno a me che si stava letteralmente sgretolando. Restò alla fine solo un cerchio di suolo intorno a me e a lei ma anche quello si restrinse gradualmente, fino ad arrivare al mio corpo che, senza alcun dolore, si sgretolò come il resto. Rimase solo la principessa alla fine, sospesa in quel vuoto, ma vi restò solo per cinque secondi, poi si risvegliò completamente. Alla fine di tutto lei restò lì, da tutt'altra parte avrebbe detto qualcuno, completamente nuda e con tanti fasci di fili elettrici intorno alla testa a farle da corona. Una voce non umana, proveniente dall'unità centrale della macchina che le faceva quasi da involucro, decretò: «Esperimento concluso!».

giovedì 8 maggio 2014

La cultura è inutile... PER COSA???

Mi si permetta di dire una cosa con tutta la franchezza e l'eleganza (evito la volgarità!) di questo mondo: che mi sono rotta eminentemente le scatole di leggere decine, centinaia di articoli, di post, di... tutto in cui si afferma che L'UNIVERSITà NON SERVE A NULLA, LO STUDIO NON SERVE A NULLA, LA CULTURA NON SERVE A NULLA!!!
Avete rotto le scatole con questo qualunquismo da quattro soldi! Vi ricordo, come prima cosa, che tanto potete dirlo, potete scriverlo in quanto qualcuno, a suo tempo, vi ha insegnato a farlo! Aggiungo inoltre che se avete interesse a scriverlo è perché in quel tanto schifato "mondo della cultura" ci siete immersi fino al collo, probabilmente siete laureati o quanto meno diplomati: se non lo siete non sapete di cosa state parlando, se lo siete state sputando nel piatto in cui mangiate. In questo secondo caso mi chiedo perché abbiate perso il vostro tempo tra i banchi e non vi siete dedicati prima all'agricoltura: ricordatevi che siete sempre in tempo!
Infine, last but not least, la cultura sarà anche inutile ma PER COSA? Al primo che mi risponde "per mangiare" (il che equivale a dire: "per far soldi") tiro in faccia la Fenomenologia dello Spirito (che, lo spiego per i "cultori dell'ignoranza", è un oggetto molto pesante...)!
Se l'uomo si fosse accontentato di mangiare si sarebbe estinto da un bel po'!


domenica 4 maggio 2014

Frivolezze canine

Oggi ho deciso di scadere nella frivolezza e descrivere un po’ il comportamento del mio cane. Sì, perché negli ultimi tempi, a quanto pare, basta dire in giro che ami gli animali per passare per una sorta di Madre Teresa di Calcutta rediviva… Che poi tu sia un omicida seriale o un rapinatore incallito poco importa, il solo fatto che tu abbia un cane, un gatto o un pitone in casa ti rende una persona immensamente buona!     
E dunque, dopo aver professato la mia bontà, passo alla fase descrittiva, atta a dimostrate che il mio cane è più umano di molti animali che si definiscono umani.
Punto primo: Sophie, il mio cane appunto, soffre di gelosia cronica. È gelosa di una gelosia che l’Otello di Shakespeare le farebbe un baffo! Lei attacca e strattona l’oggetto del suo desiderio se la di lui attenzione è stata momentaneamente carpita da qualcun altro. Oggetto del desiderio per eccellenza è mia madre (soffrirà anche un complesso di Edipo significativo!) dalla quale, ormai, sono costretta a tenermi ben lontana se voglio sottrarmi alla sua ira funesta.             
Punto secondo: Sophie odia stare sola, la solitudine la annoia e la rende triste, infatti dorme in camera con me e mia sorella, si sveglia all'alba, ci strattona per buttarci giù dal letto e, se per caso non ti fossi svegliata ancora, torna poco dopo, quando soffre la mancanza di mia madre che si assenta per una mezz'ora, e tanto si lamenta e ti infastidisce che tu sei costretta ad abbandonare il letto.    
Punto terzo: Sophie ha l’animo del feticista. Adora calzini, scarpe e piedi; i primi li ruba e li nasconde (quando non li mangia), le seconde le annusa e, in alcuni casi, ci si immerge con la testa fino al collo, i terzi li lecca con gusto (solo se ben puliti e profumati!).       
Punto quarto: Sophie, oltre ad essere innamorata di mia madre, è innamorata di mio fratello. Nei casi di liti furiose tra lui e mia sorella si mette in mezzo, salta, abbaia, ringhia e morde… il tutto contro mia sorella ovviamente! Quando lui torna a casa la sera abbaia fino a quando non entra in camera per salutarla.     
Punto quinto: Sophie è un cane egocentrico. Quando viene qualcuno a casa cerca in tutti i modi di attirare la sua attenzione; prima abbaia ininterrottamente, se non funziona porta all'ospite i suoi giocattolini, se non funziona neppure questo si dispone “a zerbino” con tanto di occhioni dolci. In quei casi estremi in cui l’ospite non concede neppure una mezza carezza si allontana indignata e lo guarda (è il caso di dirlo!) in cagnesco da un angolo del divano.                         
Punto sesto: Sophie ha la depressione delle 20:30; arrivata a quest’ora della sera inizia ad incupirsi, prende in suo pupazzetto preferito e lo porta di stanza in stanza alla ricerca di qualcuno che giochi con lei. Una volta mia sorella le ha nascosto il suddetto pupazzetto ma la cagnetta ha buttato all'aria tutto ciò che si frapponeva tra lei e l’amato giocattolo, che tanto bene si adatta al suo umore nero.         
Punto settimo: Sophie lancia sfide ai componenti della famiglia e ai gatti. Qui sarà più chiaro un esempio: se le dai del cibo che non le piace, lei non lo mangia ma neppure lo lascia, lo piazza in uno spazio intermedio tra lei e il gatto fingendo di essere distratta, non appena il malcapitato si avvicina per afferrare il cibo lei lo aggredisce. Stessa tattica con vestiti, tappeti e persino cellulari, con la variante che invece di aggredire scappa.