martedì 17 dicembre 2019

Luce


Avete mai fatto caso a quanto la luce che entra nelle vostre case possa condizionare l’umore? Se non c’è la luce giusta io, ad esempio, non riesco a cominciare bene la giornata. Sono opere d’arte le giornate, sapete? Lasciate stare la vita intera, quella non si sa mai se sarà un’opera riuscita così come la vorreste… Concentratevi sulla giornata, sulla singolarità irripetibile che sono quelle ventiquattro ore.
Ecco, due giri di lancette che potete decorare come meglio credete. A ogni battito di secondo potreste piantare un albero, ci pensate? Potreste anche farvi venire l’idea che vi cambierà la vita. Potreste concepire un figlio, adottare un cane, tenere in vita l’uccellino che è caduto nel vostro cortile. Potreste persino morire! Ci pensate?
Forse no…
So a cosa state pensando, invece, in questo momento. Se possiamo, perché non lo facciamo? Che cosa tiene incollati noi umani all'ipotesi e ci impedisce di far traboccare le giornate, di far saltare in aria le lancette?
Siamo senza sangue, è questa la verità. Siamo fili d’erba che alzano la testa timidamente e solo d’estate, non siamo capaci di estendere radici verso il basso e rami verso il cielo, di affrontare gli inverni a testa alta. Non più almeno…
Dovremmo smetterla di essere morti che camminano. Il nostro vivere in caverne ben arredate ci porterà all'estinzione, perché abbiamo dimenticato come si fa a digerire la luce.
Bella evoluzione: da scimmie arrampicatrici a scimmie ipogee. In fondo era meglio quando vivevamo sugli alberi, eravamo a un piano superiore. Almeno si interagiva e non si restava seppelliti da vivi in loculi dai nomi ammalianti: monolocale, bilocale, loft, attico… Manca sempre il cielo nudo sulla testa.
Manca sempre il tempo per fare tutto, concordate? Come se consumassimo chilometri di esistenza ogni giorno. Eppure a fine giornata, allo scadere di quelle ventiquattro ore, siamo al punto di partenza. Sì, è proprio un giro: quando le lancette tornano nella posizione iniziale, dopo due corse, tutto si cancella. Che miracolo! O forse dovrei definirlo maleficio, incantesimo di un dio divoratore di vita. Perché è così, ci sembra soltanto di vivere mentre corriamo a piedi o in macchina, mentre ce la prendiamo con il tizio che ha saltato la fila al supermercato facendoci perdere tempo, appunto, mentre consumiamo in una infernale ruota le nostre maledette ventiquattro ore. Neanche scimmie più, ma stupidi criceti inebetiti dalle sbarre che li circondano: ecco cosa siamo!
Eppure la volete sapere una cosa ancora più ridicola? Io ce l’avevo un criceto una volta, una femmine per la precisione. Ha girato a vuoto nella sua ruota anche lei, ma un giorno si è accorta che la gabbia aveva una porta, ben mimetizzata tra le sbarre. Dal momento in cui è stata consapevole dell’esistenza di quella porta, ha lasciato perdere la ruota e ha iniziato a dedicarsi a quella. Che ci crediate o no, nel giro di poco tempo, ha trovato il modo di sollevare quella porta a ghigliottina.
E ora ditemi: chi è il sorcio in gabbia?
Noi di porte ne vediamo ogni giorno, stanno lì, a ogni angolo di strada, ma ci passiamo sopra, facciamo finta di non vederle. Ogni cosa bella è una porta verso la vita, ma forse preferiamo la comodità delle nostre gabbie. Ne ha fatta di fatica il mio criceto per evadere! Noi umani non siamo disposti a faticare.
Prestare orecchio al fiore che morirà domani, all'ombra che sa che dovrà dileguarsi per far spazio al mezzogiorno non è facile, lo capisco… La bellezza della mortalità spaventa, ma è l’unica via che possa portare a riempire quelle ventiquattro ore. Riempirle davvero!
La routine, le giornate sempre uguali hanno un vantaggio: l’illusione dell’eternità. Ripetete, ripetete, ripetete… e alla fine una sorta di illusione ottica delle idee vi fa credere che la copia avrà sempre un’altra copia, all'infinito. Ma non funziona così. Il criceto muore nella ruota alla fine, mentre miliardi di altre ruote continuano a girare.
Attraversare la porta non vuol dire non morire, vuol dire sapere che si dovrà morire e lasciare che questa consapevolezza illumini tutto. Quando la morte illumina, quelle ventiquattro ore cambiano i colori della stanza, cambia il vostro volto nello specchio e i volti della gente che vi circonda.
È un dolore acuto, una lama sottile infilata sotto pelle, che non vi abbandonerà più. Ma il dolore vi sveglia, vi rinvigorisce i sensi e finalmente vi fa lasciare la vostra angusta tomba ben arredata, nella quale non sopporterete più di stare prima del tempo.
Diventerete avidi di sole a quel punto, accarezzerete la terra affondando le dita nell'erba umida del mattino, per farci pace prima di tornare a essere parte di essa.

venerdì 22 novembre 2019

Cerco di separare il giorno dalla notte


Le guarigioni sono troppo lunghe… Individuato il problema, rimosso il problema, immagini che di lì a poco potrai riprendere a pieno ritmo la vita di prima, e invece ti ritrovi ad affrontare un corpo che non ne vuol sapere di rimettersi in moto alla velocità precedente. Ti guardi allo specchio e ti dici che in fondo sembra non sia successo niente, che non c’è motivo di star lì a rimuginare…e ti dimentichi, nel frattempo, che sei una che ci ha messo trent'anni per fare il primo vero respiro… Anzi, forse ancora lo deve fare davvero! E, nonostante spray e creme varie, provi ad annusare qua e là, sentendoti molto animale… le lenzuola e i vestiti lavati, lo shampoo, le care vecchie candele alla vaniglia, il caffè... Cavolo se è forte l’odore del caffè, vince il vago sentore di mandorle della pomata che devi aspirare neanche fossi una cocainomane! Ti chiedi di cosa profumino davvero le persone che hai amato, che ami…
È tutto così lento… Ritornare piano piano a fare le cose di prima, sebbene la tua assenza sia stata di pochi giorni. Ma ormai lo sai bene che il tempo si contrae e decontrae a seconda del modo in cui lo percepisci, delle cose che fai o non fai: puoi arrivare a fine giornata con la sensazione di esserti svegliata il mese scorso. Poi ci sono eventi che ti scagliano fuori dal tempo, e lì non ci capisci più nulla quando ti risvegli. Mi chiedo, ad esempio, dove sono stata dalle 9:00 alle 12:00 del 6 novembre scorso… Credo nello stesso luogo in cui vado mentre dormo, ma non se sono certa. Lì di sicuro non c’era tempo e ha continuato a non esserci per i giorni successivi… Notte e giorno si sono capovolti, mescolati, fusi e scinderli di nuovo non è stato facile. Cerco ancora adesso di separare il giorno dalla notte, ma la diga che ho costruito è piena di buchi. Bisogna ripararla, perché questi frammenti di notte che mi assalgono in pieno giorno sono pericolosi. L’assenza di tempo, sperimentata per pochissimo, sembra aver aperto un varco e devo stare attenta a cosa lascio passare…

sabato 9 novembre 2019

Nasci ogni volta che torni dal dolore


L’esperienza del dolore fisico è quanto di più autentico si possa vivere, ti incolla al qui e ora senza che tu abbia la possibilità di fuggire. Non puoi pensare a nient’altro. Diventi il tuo dolore, ti identifichi completamente con esso, tirando calci e pugni contro tutto quello che viene dall'esterno e cerca di tenderti la mano. Niente come il dolore ti dice con chiarezza che non abiti un corpo, sei proprio quel corpo. Niente ti scolpisce così come fa una ferita. Niente ti restituisce meglio a una dimensione animale e istintiva. Se il piacere ti espande, facendoti perdere i confini, il dolore ti “concentra”: sei un punto di materia in agonia. “Non puoi ignorarmi” ti dice il dolore. Quando torni da lì è come se dovessi reintegrare tutta la realtà in te, poco alla volta, riassorbirla un pezzetto al giorno. Ed è lì che ti rendi conto che non è proprio più come prima. Ti sei vista punto, riscoprirti retta, piano, poi spazio ha la forza di una nuova nascita. Nasci ogni volta che torni dal dolore; apri gli occhi e vedi, ascolti le voci intorno, ti muovi e tocchi ciò che ti circonda, senti i sapori e gli odori. Ecco, per ora mi manca quest’ultimo passo…

lunedì 4 novembre 2019

Oggi è una giornata di vento: raccolgo le forze per non infrangermi

Oggi è una giornata di vento, una di quelle in cui la natura sembra urlare, sembra voler dare una scossa al mondo intero. Oggi sento tutto di più, quasi colta da una forma di ipersensibilità, che mi porta a essere lenta, a soffermarmi.
È incredibile come un distacco momentaneo e forzato dall'abitudine possa incidere sul modo di sentire e di pensare. Non credo capiti solo a me, anche se mi rendo conto che una certa impostazione caratteriale mi porti ad amplificare ogni stimolo.
Domani mi ricovero in ospedale; niente di tragico, ma la cosa mi ha dato uno stop abbastanza perentorio. E io sono abituata a correre, sono drogata di “fare”. 
Sono anni che mi dico: “Devo prendermi una pausa, devo fare una vacanza”. Ho rimandato di mese in mese, di anno in anno… Sapevo, in fondo, che mi sarei fermata solo per dovere.
E adesso sto qui a pensare, a rimuginare sui giorni che mi aspettano, sulle sensazioni non troppo piacevoli che sono dietro l’angolo, visto che non mi illudo che un’operazione, anche se di routine, mi faccia fare i salti di gioia il giorno successivo. Banalmente mi guardo anche la faccia e mi chiedo se dopo vedrò qualcosa di diverso, anche se impercettibilmente diverso. Mi sento Gengè Moscarda, c’è da ammetterlo.
Sento anche l’irrazionale impulso di dire parole mai dette… La mia mente si incaglia in quelle cose che avverte come sospese. E ce ne sono più di quante immaginassi fino a qualche ora fa, perché in questo momento ho come acceso i riflettori su zone in ombra più o meno estese: potere dei piccoli eventi che infrangono il magico ripetersi del tempo!
Oggi sono fragile, diciamolo pure; nei prossimi giorni lo sarò anche di più.
Raccolgo le forze per non infrangermi

venerdì 4 ottobre 2019

Ci sono cose che non si possono dire

Ci sono cose che non si possono dire.
Ci sono cose che non si possono dire perché le emozioni sono bombe e tu sei in un campo minato.
Ci sono cose che non si possono dire perché la verità a ogni costo è un valore assoluto solo nella tua stupida testa corrosa dalla filosofia.
Ci sono cose che non si possono dire perché non si presenterà mai l’occasione propizia per non fare del male a nessuno.
Ci sono cose che non si possono dire perché i segreti hanno sempre troppi protagonisti.
Ci sono cose che non si possono dire perché se dicessi semplicemente “me ne frego” non saresti tu.
Ci sono cose che non si possono dire perché l’amore è una strada dritta e soleggiata solo nei film.
Ci sono cose che non si possono dire perché altrimenti, poi, dovresti dire anche altre cose, e altre cose, e altre cose, per far tornare i conti.
Ci sono cose che non si possono dire perché hanno diritto a esistere solamente nei sogni.
Ci sono cose che non si possono dire perché le vite degli altri devono continuare ad andare così.
Ci sono cose che non si possono dire perché senti di non avere il diritto di turbare un’anima che ha già sofferto.
Ci sono cose che non si possono dire perché è meglio che esploda un cuore soltanto e gli altri continuino a battere.



mercoledì 18 settembre 2019

Nella vita bisogna far rumore: breve autoanalisi


Nella vita bisogna far rumore, è necessario farsi sentire, urlare invece di parlare. I sussurri sono coperti dai pensieri altrui. I sussurri tutti fingono di non averli sentiti. Si può vivere in due modi: in punta di piedi o con passo pesante. Mio malgrado, ho sempre camminato a passi felpati.
Oggi mi sono ritrovata tra le mani una lettera, risalente a moltissimi anni fa, che mi ha mostrato in maniera impietosa un filo ininterrotto che attraversa la mia vita.
“Di te non mi ero proprio accorta” mi scriveva la persona con un inchiostro blu traballante, tra un complimento e l’altro.
Ed ecco la costante…
Un’altra persona, anni più tardi, mi avrebbe detto: “Fai troppo poco rumore nella mia vita”.
Mi fermo, perché a rifletterci mi vengono in mente tante altre frasi che sono diverse declinazioni dello stesso concetto, che mi appare adesso come un inconsapevole (a volte!) pugno nello stomaco da parte di tanti che avrebbero voluto in quel modo sottolineare un valore.
Non far rumore, però, è una virtù difettosa. Diventi parte dell’arredamento senza accorgertene e chi ti sta intorno, senza volerti fare del male, ti tratta come tale. Gli oggetti non urlano, non piangono, non soffrono, semplicemente “stanno”. Le persone si rendono conto della loro assenza soltanto quando non assolvono più alla funzione alla quale erano deputati. Arrivate a quel punto, decidono o di sostituire l’oggetto o di riprenderselo a tutti i costi, se funzionava proprio bene.
“Ho bisogno di te” è la peggior dichiarazione che si possa fare a un altro essere umano, è come dire “Ho bisogno che tu ti rimetta sulla scrivania immobile e mi faccia luce come hai fatto fino all'altro ieri” oppure “È necessario che tu stia all'angolo vicino alla finestra perché io possa sedermi su di te e tirare un sospiro di sollievo quando ne sento il bisogno”.
È una vita di attese quella di chi non fa rumore.
Non penso si possa condannare qualcuno per il “non vedere”, “non accorgersi”, in fondo è una legge di natura: siamo catturati da ciò che è più appariscente. E d'altronde anche il silenzio, per quanto vi possa essere una predisposizione caratteriale, è una scelta.

martedì 27 agosto 2019

Case, buchi e catacombe

Stasera ho proprio voglia di raccontare fatterelli di poco conto, di quelli che ero solita narrare su questo blog quando ero una giovane e spensierata studentessa di Filosofia, con il naso rivolto perennemente al cielo in pieno stile "Talete nel pozzo".
Ebbene, il titolo di questa storia potrebbe essere "Gnothi seauton...e possibilmente pure le mura dove abita 'sto seauton!"... perché, dopo due anni di insediamento in questa oscura casetta in quel di Fisciano, ancora faccio scoperte inquietanti. 
Passino i due camini murati, che nelle giornate di vento producono sinistri rumori, passi il forno da fornaio, anch'esso murato e non meno sibilante, ignoriamo anche i tubi a vista, tappati con carta, la cui funzione mi è ignota (spero sempre non abbiano a che fare con le fogne), l'intercapedine nel muro scoperta in seguito alla caduta di pezzi di intonaco e quello che ho ribattezzato il "buco del diavolo" (in realtà una vecchia legnaia sigillata)... Ma il mistero del rientro dietro l'armadio mi ha gettata nel panico! 
Torniamo a qualche settimana fa, inizi di agosto; dovevo partire per trascorrere una decina di giorni dai miei. Sistemo la casa, il gatto, faccio le valigie... Nella concitazione, tiro con troppa forza l'ultimo cassetto dell'armadio e mi rendo conto che alcuni indumenti sono finiti dietro al cassetto stesso. Convinta di averlo già fatto in passato, estraggo tutto il cassetto e tra le mani mi ritrovo, qualche istante dopo, un reggiseno... Niente di strano nella casa di una ragazza, direte! Lo guardo: azzurro a pois bianchi, merletti vari, decisamente qualche misura in più della mia... No, proprio non è mio! Penso alle altre donne che eventualmente ho ospitato a casa e... No! Il reggiseno misterioso non può essere loro! Lancio un'altra occhiata e mi ritrovo davanti la maglietta di un pigiama, anch'essa femminile... Pure quella decisamente non è mia!
Lo so, sembra il preludio di una sorta di film erotico, ma vi assicuro che il genere adeguato è piuttosto l'horror.
Mi decido a sbirciare con una torcia nello spazio prima occupato dal cassetto e mi rendo conto che manca il muro dietro l'armadio... Vedo solo un buco del quale non scorgo la fine... Mi affretto a rimettere a posto il cassetto, tra un brivido e un'imprecazione, finisco di fare i bagagli e parto.
Oggi, oltre venti giorni dopo, mi sono fatta coraggio e mi sono decisa a spostare l'armadio, poco alla volta, ben attenta a non rompere sigilli, scoperchiare vasi di Pandora, evocare involontariamente demoni e fantasmi... Coperto da una (inutile) tendina, ho scoperto un rientro nel muro bello profondo, una sorta di nicchia con delle mensole in muratura, che mi ha ricordato da subito i fori scavati nelle pareti delle catacombe... sì, quelli dove piazzavano i morti! Nonostante tutto, ho tirato un sospiro di sollievo: una porta o una finestra sarebbero state decisamente peggio. Metti che inavvertitamente mi trovavo a Narnia... chi li avvisava amici e parenti!?
Ho atteso che la gatta esplorasse la catacomba domestica, poi ho rimesso l'armadio al suo posto e ho ripreso il lavoro. Dormirò di certo sonni più tranquilli...

giovedì 23 maggio 2019

Quella lettera di Franz al vero Kafka


Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te”: per fornire una risposta a questo interrogativo Franz Kafka ridiscese, con la Lettera al padre, nell’abisso della propria infanzia e del suo senso di inadeguatezza

Era il 3 giugno del 1924 quando Franz Kafka morì all’età di quarant’anni; ne avrebbe compiuti quarantuno esattamente un mese dopo. Cinque anni prima, nel 1919, aveva scritto e chiuso in un cassetto quella celebre Lettera al padre che non sarebbe mai giunta tra le mani del temuto destinatario.           
Se ci si accosta alla nota epistola dopo aver letto capolavori kafkiani come Il Processo o Il Castello, è difficile non notare nel breve scritto autobiografico l’eco di temi magnificamente oggettivati in quelle opere: ci si rende conto che in Kafka l’esperienza soggettiva, il dolore vissuto sulla propria pelle, giunge ai picchi dell’universalità passando attraverso la penna. Il contatto diretto col dolore, purificato dai residui di soggettività, diventa conoscenza consapevole della condizione umana in generale.       
Sebbene del lavoro di un artista conti, per molti, principalmente il risultato finale, resta comunque particolarmente interessante scoprire i retroscena che sono alla base di opere di indiscutibile profondità e, nel caso di Kafka, anche di grande complessità.     
Un primo dato, che emerge chiaramente dalla Lettera al padre, è il seguente: lo scrittore praghese fu il singolare risultato di un incontro/scontro multiplo di personalità. Il primo di essi fu quello che gli diede la vita, tra le nature tanto differenti della madre, Julie Löwy, donna docile, sempre pronta a proteggere i figli ma mai a contrariare il marito, e di quel padre terribile, sempre pronto a minacciare e a rinfacciare
Nella Lettera Kafka si definisce, quasi con rammarico, “un Löwy con un certo fondo kafkiano che però non è mosso dalla volontà kafkiana di vita, di affari e di scoperta”. 
Fu, però, soprattutto dallo scontro del giovane Franz con Hermann, il vero Kafka, che emerse il ben noto artista, con tutte le sue insicurezze e le dichiarate debolezze.     
Un secondo dato, di importanza capitale, è la sorprendente ripartizione delle responsabilità tra Franz e il padre: “eravamo così diversi e, in questa diversità, così pericolosi l’uno per l’altro”. In alcun modo Kafka, nelle pagine della sua lettera, condanna completamente il genitore, sa che quello con il padre è stato un rapporto di tormento reciproco e non unidirezionale; lo scrittore avrebbe potuto spogliarsi di ogni colpa ma dall’inizio alla fine dell’opera, incredibilmente, è proprio la colpa a farla da padrona nel suo animo. Scivola in tutti gli scritti di Kafka questo senso di colpa congenito che sembra quasi essere nato con l’uomo, striscia ovunque anche tra le righe della Lettera al padre e l’unica motivazione plausibile pare essere il semplice e nudo essere così come si è.           
Tu eri per me la misura di tutte le cose”: dice Kafka del padre, ed è chiaro che, in alcun modo, egli, lo scrittore, pensa di poter mai anche solo avvicinarsi a quella misura, a confronto della quale tutto appare infimo, tutto sembra sbagliato. La figura di Hermann si riveste dei caratteri del tiranno, mai messo in discussione: ogni sua volontà, anche incoerente, è un ordine, ogni condanna da lui emessa ha la magica capacità di creare la colpa. “In certo qual modo si era puniti prima ancora di sapere che si era fatto qualcosa di male”; di fronte a queste parole non si può non pensare alla condanna di K. ne Il Processo, una condanna che conduce il protagonista alla morte senza che egli riesca mai a capire quale sia la colpa. E la stessa idea di condanna, inoppugnabile quanto misteriosa, si ha ne Il Castello, dove il luogo delle decisioni fatali si rivela irraggiungibile oltre che incomprensibile nella sua organizzazione.    
Se è vero che Franz Kafka si dimostra convinto del fatto che il fondo ultimo della sua personalità sarebbe stato lo stesso anche supponendo un comportamento meno duro da parte del padre, è però altrettanto innegabile che la vita dello scrittore fu, fino alla morte, un continuo ed estenuante processo, con Hermann Kafka come giudice e la sua arbitraria volontà come legge.
    

(Precedentemente pubblicato in https://www.zerottonove.it/)

lunedì 20 maggio 2019

Memento

Ci sono momenti in cui senti di aver dato troppo, ti guardi indietro e vedi pezzi di te regalati con imperdonabile disinteresse. Ti vedi in briciole negli altri e non sai esattamente come raccoglierti e tornare di nuovo una, perché per avere la forza di continuare la tua vita devi essere ben compatta. 
Inizi così a chinarti per prendere tutti quei brandelli, a volte ti tocca strapparli con la forza a chi cerca di tenerseli stretti... allora ti affidi alla rabbia.
C'è chi ha camminato al tuo fianco senza neanche rendersi conto del magma che si agitava sotto la sottile crosta della tua serenità. Cecità? Noncuranza? Paura di sapere? A un certo punto non ti importa più...
C'è chi, poi, brandendo una spada fatta di pensieri, ha infranto quello strato di superficie, puntando al centro di te. Raggiunto il cuore, però, quella spada ha continuato a usarla per devastare ogni cosa, così che alla fine sembrava che uno sciame di fameliche cavallette avesse divorato ogni tua singola sicurezza, ogni idea sulla quale avevi eretto la tua esistenza. Sei fuggita per anni, fino a quanto quella lama non l'hai impugnata tu, per recidere la testa del simulacro.
E ancora, c'è chi ha avuto tra le mani le chiavi di tutte le tue porte, ma le ha gettate via come avrebbe fatto con un ferro vecchio. "Non vali la pena": il messaggio sotteso a quel gesto. Quel mantra ti è risuonato dentro fino a piegarti, ma poi hai capito che, come un qualunque marinaio di Ulisse, dovevi tapparti le orecchie per non gettarti tra le braccia delle sirene.
Infine c'è chi ti ha invasa, perché non conosceva altro modo per entrare in contatto con te; ha cercato di forzare ogni porta, ma, una volta dentro, non ha avuto occhi per vedere né orecchie per ascoltare.
Mi dico, dunque, mentre mi rimetto insieme: calmati, siediti, aspetta. Aspetta chi sa vedere e ascoltare, chi vuole vedere e ascoltare, chi sa cosa farsene delle chiavi che ha in mano e, una volta dentro, non dà alle fiamme le tue stanze. Aspetta chi ha il passo leggero e non usa armi per infrangere le superfici, chi sa orientarsi nei tuoi sinuosi corridoi per arrivare a godersi i panorami dalle finestre. Sii spazio aperto solo in quel caso. 
Potresti aspettare invano, ma almeno sarai tutta intera. 

giovedì 2 maggio 2019

Insignificanti pensieri sull'Amore


L’amore è un gioco a due, in cui si fa la cosa più seria che possa esistere: costruire un mondo e mantenerlo in vita. Sei Atlante, ma condividi il peso di quella gigantesca creatura; se uno dovesse cedere, il mondo travolgerebbe l’altro. 
Non ci si improvvisa titani solitari nell'amore, Demiurghi bisogna esserlo in coppia.

L’amore è un bambino terribilmente serio che, giocando, costruisce la realtà. Perché sia se stesso, l’amore deve necessariamente generare, ma non figli, come qualcuno potrebbe banalmente pensare, deve dare la vita a una dimensione nuova.
Prima di qualsiasi altra cosa, gli amanti devono edificare la loro dimora mentale, il loro regno di pensieri, ai quali accedere mediante un linguaggio segreto fatto di simboli, allusioni, sfumature impercettibili per il resto dell’umanità.




giovedì 25 aprile 2019

Paul Celan, il poeta che diede voce ad Auschwitz


Il poeta ebreo Paul Celan visse direttamente il dramma del genocidio e trascorse il resto della vita, fino ai limiti della follia, a mettere in versi l’indicibile

Nel 1949 uno dei maggiori filosofi del ‘900, Theodor W. Adorno, rese pubblica per la prima volta una tesi che sarebbe passata alla storia, quella secondo la quale non ci può essere poesia dopo Auschwitz. Quali parole, infatti, utilizzare per descrivere l’orrore? L’Olocausto mise il mondo di fronte all’impotenza e all’irrimediabile insufficienza del dire.      
Il poeta Paul Celan, originario di Czernowitz e, come Adorno, ebreo, invece, del dar voce a chi voce non aveva più fece un imperativo per tutta la durata della sua vita. Il confronto con la “sentenza” adorniana fu inevitabile, tuttavia la constatazione di ordine teorico dalla quale Celan partì diede basi solide ad ogni suo singolo verso.       
Cantare l’indicibile richiedeva strumenti poetici nuovi, adeguati all’argomento, e questi nuovi mezzi Paul Celan li cercò e li trovò in un generale sovvertimento della concezione tradizionale del linguaggio: non si poteva parlare di Auschwitz fintanto che si fosse tentato di farlo con il linguaggio adoperato fin a quel momento. Il tedesco, la lingua adoperata dal poeta, la lingua del “nemico”, doveva essere totalmente sovvertita per poter risultare più efficace di quel silenzio che costituiva l’unica alternativa ad essa     
E così nelle opere di Celan sparì prima di tutto la distinzione tra significante e significato: la parola nelle sue liriche non è un segno per qualcosa che sta al di là di essa, propriamente la parola celaniana non dice, è.
La poesia è un luogo reale e comporla non vuol dire riprodurre una realtà, essa è creazione nel senso più radicale del termine, è produzione e non riproduzione di qualcosa di già esistente.
Il critico di origine ungherese Peter Szondi, amico del poeta, così si esprimeva in relazione a Stretto, una delle sue liriche più famose: “il testo stesso rifiuta di porsi al servizio della realtà, di continuare a giocare il ruolo che gli si assegna a partire da Aristotele. La poesia cessa di essere mimesis, rappresentazione: diventa realtà. Realtà poetica, beninteso, testo che non segue più una realtà, ma si progetta esso stesso, si costituisce in realtà”.          
E in linea con ciò, dunque, la landa della quale parla Celan all’inizio della stessa poesia è il testo stesso che smette di rappresentare per offrire al lettore una realtà mai vista precedentemente, sconosciuta perché mai stata prima.       
La tragedia dell’Olocausto non poteva avere voce, Celan provò a donargliene una, provò a trovare le parole per tutti coloro che non avevano avuto modo e tempo di averne; con quelle stesse parole, poi, creò una realtà inedita, perché, stando a quanto detto dello stesso Celan, “la realtà non è, la realtà va cercata e conquistata”. La poesia celaniana è il luogo in cui  accade l’indicibile.     

(Precedentemente pubblicato in https://www.zerottonove.it/   

sabato 6 aprile 2019

Robert Musil, l’amore e il caso

Pubblicata nel 1911, la novella Il compimento dell’amore di Robert Musil, all’epoca già autore de I turbamenti del giovane Törless, ebbe scarso successo, non da ultimo per la complessità che, dietro un tema apparentemente semplice, celava fondamentali problemi filosofici 

C’è un testo di Robert Musil che, per la sua brevità, sembrerebbe non poter essere scaturito dalla stessa penna che ha prodotto L’uomo senza qualità; tuttavia, non appena si dà inizio alla lettura, ci si rende conto che l’inconfondibile marchio di fabbrica è inequivocabilmente presente anche in questo scritto.   
Il compimento dell’amore, recita il titolo, ma della banalità di taluni racconti d’amore questa novella ha ben poco, per non dire nulla; il legame che intercorre tra la protagonista, Claudine, e l’uomo amato, sembrerebbe quasi una maschera che consente, però, di intravedere questioni di più ampia portata.     
L’occasione di un viaggio, il temporaneo distacco dal compagno di vita danno modo a Claudine di percepire tutta l’accidentalità della sua condizione di compagna di quell’uomo soltanto: è la casualità che nessuno vorrebbe mai ammettere, quella della scelta dell’amore.       
Proprio questa ferma percezione del caso dietro ogni apparente necessità si fa strada sempre più viva nello scritto di Musil, supportata dall’evocazione di un passato personale della protagonista radicalmente differente rispetto al presente. L’instabilità, l’assenza di scelte esclusive caratterizzava la vita precedente, la stabilità del legame sembrerebbe la prerogativa del presente.          
Ma a restituire il presente all’instabilità giunge la prospettiva del tradimento, non necessario, né supportato da un sentimento forte: è il fascino della possibilità che seduce la protagonista, la possibilità di essere altro se non addirittura nulla di determinato. Ogni presa di posizione, ogni imposizione della volontà che si orienta in una direzione piuttosto che in un’altra appare quanto mai evanescente e priva di ragione.
Ciò che descrive Musil va ben al di là del semplice mettere in dubbio la scelta di un compagno di vita, lo scrittore è infatti capace di far sì che ci si apra davanti l’abisso dell’incoerenza della personalità e della vita di ogni individuo; “si incide una linea, una linea qualsiasi semplicemente continua, per aggrapparsi a se stessi in mezzo all’esistenza delle cose che da essa si erge muta; questa è la nostra vita; qualcosa come quando si parla senza interruzione e si finge con noi stessi che ogni parola sia legata alla precedente e richieda la successiva, perché si teme di barcollare in qualche inimmaginabile modo e di essere dissolti dalla quiete nel momento del silenzio lacerante; ma è solo paura, solo debolezza dovuta alla casualità di tutte le nostre azioni che si spalanca tremenda”.       
Ciò che si rivela, non senza tormento, alla protagonista del breve scritto di Musil, così come si rivelava anche al giovane Törless, è l’impossibilità dell’uomo tutto d’un pezzo: tracciare quella linea retta dall’inizio alla fine della vita è rassicurante quanto ingannevole e, a guardarla da vicino, questa linea si sfibra, mostra insospettabili lacerazioni e tentativi di ricucitura più o meno riusciti.  
Alla fine il tradimento si compie ed è il trionfo della casualità, un puro gioco con la possibilità; e all’uomo che le chiede se per lui provi amore, Claudine risponde: “No, amo il fatto di essere con lei, il fatto, il puro caso che io sia con lei”.           
Paradossalmente per Musil il compimento dell’amore si concretizza con l’infedeltà, “quel poter esistere come per tutti e tuttavia solo per uno”.     


(Precedentemente pubblicato su https://www.zerottonove.it/)           

mercoledì 20 marzo 2019

Scrittori, correttori e contrappasso

Sono stanca, ho passato il pomeriggio e parte della serata a correggere un testo che di sicuro mi occuperà altre giornate intere, un testo di un autore che sembra non conoscere il senso della parola "comunicare"... 
Ecco, nel caso non fosse chiaro, credo fermamente nel collegamento tra il concetto di "scrittura" e quello di "comunicazione", se si preferisce "condivisione". 
Insomma, se non scrivi per dire qualcosa al mondo, quello che hai scritto lo chiudi in un cassetto, no?
A quanto pare no...
Lo sconforto mi ha portata a formulare questo pensiero: chi scrive dovrebbe sapere cosa vuol dire stare dall'altra parte. Allo scrittore farebbe bene, per un certo periodo della vita, fare il correttore di bozze, il recensionista... il lettore! 
Lo scrittore dovrebbe provare la noia più desolante, dovrebbe compiere il fastidiosissimo sforzo di comprendere la spocchia di chi non vuol essere compreso (ma vuol essere letto!), dovrebbe sentire l'irritazione quasi epidermica che si prova al cospetto di una trama costruita male, di un personaggio vuoto, di una storia senza un'anima. Chi scrive dovrebbe sperimentare il contrappasso prima ancora di compiere il peccato d'essere un cattivo scrittore. 
Correggere pessimi libri farà anche venire i crampi allo stomaco, ma almeno si rivela un efficace vaccino.

FOTO: Autore sconosciuto

mercoledì 27 febbraio 2019

Il lusso dell'incompletezza

Mi sembra passata una vita dall'ultima volta che ho scritto su questo mio "diario pubblico"... E forse non è che sembra solamente, è davvero così, me ne rendo conto nel momento in cui provo a riassumere gli avvenimenti dell'ultimo anno e mezzo. Quante vite ho vissuto nel frattempo? Una, nessuna e centomila... a seconda dei punti di vista. 
La data dell'ultimo aggiornamento mi ha messo una gran malinconia, mi parla chiaro: non ho più molto tempo per me stessa. Da una parte è un bene, vuol dire che ho un lavoro, ho degli impegni, non ho più quegli innumerevoli spazi vuoti, croce e delizia di ogni disoccupato; dall'altra, però, questo blog mi sembra una casa abbandonata, una vecchia dimora che mi ha dato tanto e dove ho lasciato ricordi su ricordi. A volte ci torno solo per leggere quello che ero e vi trovo le macerie sulle quali ho eretto la mia vita attuale. In fondo i calcinacci sono utili per riedificare...
Come ai vecchi tempi, dunque, mi limito a lasciare un pensiero, sconnesso e imperfetto... Mi concedo il lusso dell'incompletezza, almeno qui...