martedì 31 dicembre 2013

Auguri 2014

A chi ha buttato via pezzi di passato insieme al vecchio anno, perché è incredibile la quantità di oggetti inutili che si è capaci di accumulare dentro e fuori di sé.
Si rimanda in attesa dell'occasione da dare a quei pezzi di vita fino a quando non li si guarda ed essi si manifestano in tutta la loro confortante estraneità.


A chi, in questo 2013, non ha trovato le parole quando servivano e le ha incontrate soltanto vagando di notte nella propria mente, quando, totalmente fuori luogo, sono state capaci di far ingurgitare bocconi di pura impotenza.

A chi ha messo in discussione la propria strada ed è ritornato col pensiero a tutti i bivi della propria vita, rendendosi consapevole del fatto che, dopo tutto, bastava poco per non essere qui ora.

A chi si è sentito inerme e perduto mentre la propria vita fuggiva in ogni direzione e quasi non bastava il fiato per correre dietro a tutte quelle schegge dopo l'esplosione del proprio percorso.

A chi ha lottato per risalire alla luce, nonostante il fardello del proprio malinconico sé sulle spalle.

A chi, tanti giorni, non ha visto motivi per alzarsi la mattina ma lo ha fatto lo stesso.

A chi ha la forza di archiviare...

Auguro un buon 2014.


mercoledì 25 dicembre 2013

Natale 2013

Erano trascorsi mesi dall'ultima sensazione piacevole e banale che mi avesse colpito con forza: ho dovuto attendere il pomeriggio di Natale perché mi si ripresentasse qualcosa di potentemente liberatorio, come sanno essere solo le cose comuni quando ti colgono di sorpresa.
La spiaggia d’inverno è un deserto particolarmente adatto ad accogliere i melanconici; la sabbia è piaciuta al mio cane ed è piaciuta a me. La corsa mi è costata un mal di gola in via di peggioramento, tanta stanchezza e un alleggerimento dell’anima da mesi di ansie e paranoie.

venerdì 20 dicembre 2013

Linearità e frattura

La linearità dell'esistenza è una vecchia illusione; a guardar bene la vita di ciascuno è fatta di fratture. La linearità ci manca e la coerenza è diventata il vizio di chi la cerca. Quanto vali lo stabilisce quanto fai; "cosa?" e "come?" sono diventate domande fuori luogo. Il tempo che si dedica a qualcosa, o anche a qualcuno, è sempre troppo: è tempo sottratto alla quantità. Le nostre sono esistenze dilaniate, totalmente decentrate. Quel era il centro? Probabilmente l'essere unico che eravamo, l'in-dividuo che non siamo più. Ciascuno di noi è un essere multiplo e non perché raccolga in sé infinite possibilità di vita, quanto piuttosto per il fatto di averne attuato una buona parte, senza che la contraddittorietà costituisca un problema. 
Il frammento è, non a caso, la lettura che preferiamo, perché assomiglia al nostro tempo: risponde perfettamente alla disperata esigenza di riempire spazi angusti collocati tra un'attività e l'altra.

sabato 7 dicembre 2013

Correre sul posto

Periodicamente ritengo opportuno applicare il termometro all'anima per leggere, riflesso su una fittizia linea di mercurio, lo stato del mio umore.
Attualmente sono l'atleta che corre sul posto senza spostarsi di un centimetro, una bicicletta da corsa alla quale è momentaneamente saltata la catena e che, per quanto si pedali, resta immobile.
I miei obiettivi sono la linea dell'orizzonte, sempre di fronte a me, per quanti passi io muova, sempre alla stessa distanza.


lunedì 25 novembre 2013

Scimmie che parlano (e si ribellano)

Nei pomeriggi di pioggia (anche se quello di oggi non è stato proprio un pomeriggio piovoso, ma fa lo stesso) che c'è di meglio che restare incollati al pc a guardare un film non troppo impegnativo?
Oggi è toccato a L'alba del pianeta delle scimmie, un film risalente ad un paio di anni fa (2011), diretto da Rupert Wyatt. Alla fine sono stata costretta ad ammettere che non è propriamente il tipo di film che fa per me, tuttavia qualche breve riflessione la merita, in particolar modo sulla condizione di "fuori posto" della scimmia protagonista. Riassumendo: un farmaco rivoluzionario viene sperimentato su una femmina di scimpanzé, ma qualcosa va storto, sebbene dimostri di aver sviluppato una straordinaria intelligenza, l'animale impazzisce e gli scienziati si trovano costretti ad abbatterla. Nella gabbia dello scimpanzé, però, ad attendere c'è una sorpresa: un cucciolo, partorito chissà quando, al quale la madre ha trasmesso l'intelligenza superiore dovuta alla somministrazione del farmaco.
Questa la premessa, si può immaginare cosa succeda all'animale, che cresce sotto la protezione di uno degli scienziati; il minimo che ci si possa aspettare è una crisi di identità, ed è quello che in effetti avviene.
Certamente Cesare, questo il nome dato all'animale, non è un uomo, ma con l'intelligenza che si ritrova (arriverà persino a parlare) non lo si può definire neppure semplicemente un animale. Qual è dunque il suo posto? Il posto, la "casa", alla fine, è lui stesso a sceglierla, dopo una serie di peripezie e non senza danni, principalmente per ribellione nei confronti di chi l'ha creato sembrerebbe. Cesare all'uomo e alla sua tecnica preferisce la foresta e i suoi "simili".
Il film sembrerebbe un attacco alla prepotenza umana che si manifesta attraverso la scienza; io sto ancora a chiedermi come faccia una scimmia parlante, un essere intelligente insomma, a vivere in mezzo ai comuni animali: gli hanno assegnato un posto con troppa facilità.

venerdì 22 novembre 2013

Ritornare

"Non hai mai pensato di tornare?"
Che domanda stupida! Ci sono fili che ti aiutano a ritrovare la strada del ritorno e altri intesi a trascinarti indietro. La mente è attratta da quel richiamo ed è difficile sottrarvisi. Non faccio che pensare di tornare a casa. Quando la moglie di Lot si voltò indietro, si trasformò in una colonna di sale. Le colonne sorreggono le cose e il sale le mantiene pulite, ma è un ben misero baratto se in cambio si perde la propria identità. Molta gente torna indietro ma non sopravvive perché sente il richiamo di due diverse realtà. E questo è troppo. Si può mettere sotto sale il proprio cuore e ucciderlo, oppure si può scegliere una delle due realtà. In ogni caso c'è molto dolore. Alcuni sono convinti di poter avere la botte piena e la moglie ubriaca. Ma il vino inacidisce e finisce per andare di traverso. Ritornare dopo molto tempo fa impazzire, perché a chi si è lasciato alle spalle dà fastidio che tu sia cambiato, ti trattano come hanno sempre fatto, ti accusano di essere indifferente, mentre tu sei semplicemente differente. [Jeanette Winterson - Non ci sono solo le arance].
Ritornare vuol dire impazzire. Voltarsi indietro significa essere spacciati. Nelle sue varie forme è un pensiero quasi ossessivo, ad ogni passo c'è il terrore di ritrovarsi al punto di partenza e di essere risucchiati irrimediabilmente indietro. Di passo indietro in passo indietro dove si arriverebbe? Forse c'è un "da dove" originario dal quale si cerca di fuggire di continuo, un "da dove" in cui non c'è davvero alcuna differenza tra  sé e una colonna di sale. Tornare indietro equivale a cercare di scrollarsi di dosso gli innumerevoli strati del tempo, i molteplici frammenti di sé, tornare indietro equivale a perdere sé. 
Fortuna vuole che l'impresa sia pressoché impossibile.

giovedì 21 novembre 2013

Gnothi seauton

[...] gli atti non intenzionali sicuramente fanno sorgere molti malintesi nei rapporti umani. Colui che ha compiuto un atto simile, senza alcuna intenzione, non se lo attribuisce e non se ne sente colpevole; mentre chi, per così dire, è vittima di tale azione, vi riconosce intenzioni e tendenze, dalle quali il primo si difende, perché il processo psichico dell'atto non gli è chiaro come per l'estraneo. Così finisce per sentirsi incompreso o frainteso dall'altro. In fin dei conti alla base di questi malintesi c'è il fatto che essi vengono compresi e fin troppo bene. Più i soggetti sono nevrotici e più occasioni avranno di cadere in questi dissidi, occasioni in cui ognuno di loro riverserà la colpa sull'altro. Questa è la punizione per la nostra mancanza di sincerità interiore: sotto la maschera della dimenticanza, della disattenzione, della mancanza di intenzione, gli uomini esprimono i loro sentimenti e le loro passioni che farebbero meglio a confessare a se stessi se non sono capaci di dominarli. Effettivamente si può affermare, in linea generale, che ognuno fa continuamente l'analisi del suo prossimo, e finisce per conoscere gli altri meglio di se stesso. Per conformarsi alla regola del "conosci te stesso", bisogna studiare i propri atti e le proprie omissioni apparentemente accidentali. [Sigmund Freud - Psicopatologia della vita quotidiana]
Chi ha ragione? Questa è la domanda che mi sorge spontanea nel leggere questo passo di Freud. Il più delle volte si passa con leggerezza su dimenticanze e sbadataggini e le si archivia come atti involontari ma, stando a quanto afferma un signore che certamente non è l'ultimo arrivato in quanto a conoscenza della mente umana, a prendersela per certe sbadataggini non si fa poi tanto male.
Quello che però risulta più interessante è il "capo d'accusa": di cosa accusiamo effettivamente qualcuno che si è scordato di farci gli auguri per il compleanno? Cosa rinfacciamo a chi dovesse dimenticarsi di portarci il libro che ci aveva promesso? Forse di dare poca importanza agli oggetti delle dimenticanze? In realtà la dimenticanza, come la distrazione, è una maschera che cela al soggetto che la indossa il suo stesso volto, mentre agli occhi del prossimo questo stesso volto è perfettamente trasparente; l'accusa che Freud sembra dunque muovere è quella di incapacità di introspezione. Suona strano, per certi versi, sentire associata la mancanza di conoscenza di se stessi ad un "capo d'accusa", forse Freud non lo fa davvero e sono io ad effettuare il passaggio dalla semplice osservazione di un fenomeno al giudizio morale sul fenomeno. Motivazione? Intolleranza nei confronti della mancanza di sincerità verso se stessi.

"Gnothi seauton" è un imperativo. 

venerdì 8 novembre 2013

Senso/Direzione

Senso: in uno dei tanti corsi di filosofia di chissà quale anno mi è stato detto che un senso, tra le altre cose, è una direzione, anzi, fondamentalmente, il senso è direzione. Trovare un senso vuol dire trovare una direzione e, dunque, una vita che abbia un senso è una vita che ha trovato una direzione. 
Ciò vuole forse dire che dobbiamo lasciare vie dietro di noi (perché davanti, è cosa nota, non ce ne sono), voltandoci indietro dovremmo sempre essere in grado di vedere strade orientate tracciate dai nostri passi. 
Ma le strade si costruiscono per esclusione, scegliendo di dirigersi a sinistra piuttosto che a destra, ad Oriente piuttosto che ad Occidente; ogni via è fatta di no e di rinunce. 
Quanto costa oggi un no? Credo sia il prezzo da pagare per la propria identità, per essere qualcuno piuttosto che nulla, perché, se è vero che siamo il risultato delle nostre scelte, fin quando siamo tutto non siamo
nulla.

venerdì 18 ottobre 2013

Hesse: una poesia


LAMENTO

Non ci è concesso d'essere. Sol fiume
siamo ed in ogni forma c'inseriamo,
per entro la caverna, il duomo, il lume,
la notte, e sempre all'essere aspiriamo.
Per l'uomo, benché assuma una sua forma,
patria e felicità sono cose vane,
sempre è in cammino ed ospite di norma,
sede non ha, per lui non cresce pane.

Non sa qual sorte Dio gli abbia provviso,
sente che come argilla lo sballotta,
duttile e muta, senza pianto e riso,
che viene, sì, impastata, ma mai cotta.

Oh tramutarsi in pietra un dì! Durare!
Di questo abbiamo eterna nostalgia.
Ma un brivido rimane e diventare
non può quiete sulla nostra via.

(HERMANN HESSE)


Il giuoco delle perle di vetro, con questo libro sono tornata ad Hermann Hesse per l'ennesima volta. Terminato il romanzo vero e proprio mi sono trovata di fronte ad una serie di poesie e, quella sopra riportata, è la prima.
Che le traduzioni siano dei tradimenti è cosa ormai nota, tuttavia, per dei versi come questi, mi accontenterei anche dell'italiano, che non credo tradisca del tutto il senso, essendo questa una poesia dal contenuto spiccatamente filosofico. 
Così riassumerei il contenuto: si tratta del semplice lamento di tutto ciò che diviene e potrà sempre soltanto aspirare ad essere; uno dei problemi più vecchi del mondo, espresso nei modi più disparati ma mai esaurito. 
                                

domenica 13 ottobre 2013

Ho ripreso a stare al buio

Ho ripreso a stare al buio. 
Tento di sottrarmi alla luce che non fa altro che trasmettermi un senso di freddezza acuta e mi rifugio in una calda penombra... Cerco di concentrare il calore in me stessa, come ad evitare che la vita mi si disperda intorno, cerco di raccogliermi perché ho l'impressione di sgretolarmi e spargermi in pezzi...

domenica 6 ottobre 2013

10 giorni dopo

Impressioni del decimo giorno dopo la laurea: nullafacente come previsto, in attesa di non si sa cosa come previsto, ansia-pressione-depressione-angoscia-insofferenza come previsto... Forse è proprio il fatto che tutto sia andato come previsto che mi toglie ogni briciolo di buona volontà... Forse davvero occorrerebbe qualcosa di totalmente fuori dai programmi...

mercoledì 25 settembre 2013

Questione di ore

Questione di ore... prima o poi doveva arrivare il momento in cui sarebbe stata questione di ore... 
E domani a quest'ora cosa starò pensando? Probabilmente a come continuare...
Continuare, andare avanti, tener duro, resistere... Resistere in salita ovviamente...
Intanto ripeto un discorso che non ricorderò mai, come so fin troppo bene: sono due anni di lavoro in 15 minuti al massimo... Si tratta di una situazione esemplare, è sempre così, in una manciata di minuti sei chiamato a render conto di anni di vita...

mercoledì 11 settembre 2013

Fermarsi

L'idea di fermarmi è sempre stata estranea alla mia natura... E invece mi ritrovo a dover frenare tutto, sembra giunto il tempo di bloccarsi e riprendere fiato nella speranza di ricominciare la corsa... Non si sa quando, non si sa come o dove e i dubbi, si sa, si bloccano tutti all'altezza dello stomaco, impedendo al respiro di scivolare via...
Fermarsi e riprendere fiato mi sembra un po' una morte in attesa di una presunta resurrezione...

venerdì 30 agosto 2013

Sogni in attesa della laurea

Sogni tipici e ricorrenti di una studentessa di filosofia che deve laurearsi: arrivare in ritardo in seduta di laurea, per motivi inconcepibili e sopratutto in condizioni inadeguate. 
Vista la mia avversione per i ritardi e per le cose organizzate all'ultimo momento non c'è sogno più frustrante e generatore di ansia!

venerdì 23 agosto 2013

La minaccia del futuro

Le correzioni della tesi magistrale sanno tanto di ultimo atto di un'opera teatrale lunga vent'anni... 
La laurea mi sembra un muro invece, oltre il quale non riesco a vedere nulla; sta lì come una meta angosciante che non è in grado di promettere niente...
Ad ogni domanda sul dopo c'è un abisso che si apre: pazzesco come il futuro possa diventare una minaccia di questi tempi! Ho quasi l'impressione che tra circa un mese mi sveglierò e mi ritroverò il vuoto sotto i piedi...

mercoledì 7 agosto 2013

Sono il mio tempo

Ci sono momenti che potrei definire illuminanti, non perché caratterizzati da chissà quale intuizione improvvisa, quanto piuttosto perché mi si presenta con estrema chiarezza ciò che già avevo pensato in maniera confusa, senza saperlo esprimere in un'adeguata sintesi.
IO SONO IL MIO TEMPO: questo mi sembra riassumere tutta una serie di pensieri su ciò che sono, ciò che faccio, ciò che non voglio e non posso essere, o meglio ciò che non posso essere perché non voglio essere. Non sono certo la prima a dirlo, non sono l'unica a saperlo, eppure mi giunge ogni volta come qualcosa di nuovo. Sono il mio tempo perché divento ciò in cui lo impiego.

mercoledì 24 luglio 2013

Le tesi mi salvano dall'estate


Le tesi mi salvano dall'estate: la mia paradossale verità. 
I ritmi mi sottraggono agli eccessi di pensiero.
Le giornate troppo calde e troppo lunghe sono accorciate e raffreddate dai piccoli fini da raggiungere a sera.
Sophie funge da elemento di disturbo...


domenica 14 luglio 2013

Dieci mesi in due valige

Ho fatto entrare dieci mesi in due valige e qualche busta.
Credo che il difficile sarà trovare un posto a questi resti di vita una volta tornata a casa, dove so bene che il posto che vorrei non esiste; non esiste lo spazio che vorrei. Probabilmente è sempre questione di luoghi, bisogna trovare quello più abitabile per sé... E la soluzione migliore sarebbe trovarlo dentro di sé questo luogo, là da dove nessuno potrà mai cacciarci via... 

C'ero riuscita, avevo chiuso porte e finestre e mi ero ritirata nella mia monadica solitudine, lontana da ogni luogo fisico... Ma si fa presto a disabituarsi: abitare se stessi richiede una tensione continua che ha come esito la pace più imperturbabile. 
Avevo trovato un luogo più accogliente della mia mente... 
E adesso riduco il luogo in pacchetti più o meno grandi e cerco di portarmelo dietro: mi stupisco che alla fine ne resti così poco... Evidentemente pensavo di occupare molto più spazio di quello che in realtà occupo; ci si stupisce sempre di quante poche siano le cose alle quali è riconducibile una vita, di quello che resta dopo che si è messa la parola fine... Tutte le volte che mi è capitato di doverlo fare mi sono sempre ritrovata con una manciata di oggetti tra le mani e il reiterato interrogativo "Ora che me ne faccio?"... Intanto sto qui a chiedermi, oggi per domani: Qual è il mio posto? Dove metto le mie cose? Dove metto la mia vita?

mercoledì 3 luglio 2013

Se il mondo è una mia rappresentazione...

Un paio d'anni fa a quest'ora scrivevo qui quasi ogni giorno... Dovevo aspettarmelo che l'abitudine non sarebbe durata tanto a lungo... Chiunque altro lo vedrebbe come un dato positivo: se non sto qua a scrivere di ogni minima variazione del mio umore, applicando, come direbbe Rousseau, il barometro all'anima, vuol dire che sto facendo altro, ho degli impegni nella vita "reale"... Fatto sta che gli impegni nella vita reale a me non sono mai andati giù, dopo un po'iniziano a pesarmi addosso come macigni, e divento insofferente... 
Quindi cerco pesi a me più confacenti: penso che riuscirei a reggere a lungo solo il peso della mia testa. Solo per abitudine, non per altro...
Se il mondo è una mia rappresentazione, perché non sparisce quando chiudo gli occhi? Perché non si dissolve come un sogno al contrario? I miei desideri più profondi in fondo sono collegati, forse sono uno solo: far sparire me stessa o far sparire il mondo.

venerdì 21 giugno 2013

Tesi d'estate

Credo che dopo la laurea triennale la mia mente abbia automaticamente rimosso cosa voglia dire scrivere una tesi in piena estate... A questa dimenticanza hanno posto rimedio gli ultimi giorni. 
Il computer è una fonte di calore: punto primo e imprescindibile... Ma sono troppo pigra per scrivere a mano e poi riscrivere tutto col computer, ergo lascio che mi si fondano le dita con la tastiera.
Poi vogliamo parlare dello star seduti per tanto tempo? Dopo un po' ci si fonde anche con la sedia!
I ritmi di scrittura sono un altro elemento preoccupante, sembra quasi che mi abbiano trapiantato momentaneamente il dna di un bradipo...
A parte questi piccoli inconvenienti, quanto meno navigo nei libri...

lunedì 10 giugno 2013

Corsa verso il nulla

Di tanto in tanto faccio un po' di autobiografia, quando l'occasione me lo permette, si capisce...
Occasione del giorno: fine degli esami universitari e lutto post esame... 
Lutto? Certo, non è uno scherzo, ho appena messo la parola fine all'attività che mi ha tenuta impegnata negli ultimi cinque anni, preparare e preoccuparmi di un esame dopo l'altro. La sensazione è più o meno come quella dell'ultimo giorno di scuola al liceo: una liberazione da un lato, un vuoto dall'altro... Lì lo spauracchio della maturità, qui quello della tesi...
Ricordiamoci che l'angoscia è il sentimento del puro nulla, che è quello che irrimediabilmente mi attira... 
Alla fine di un percorso si percepisce sempre il Nulla in dosi più o meno letali...

domenica 2 giugno 2013

Rientrare nella propria pelle

...e nulla pensavo a quanto difficile fosse alle volte seguire la propria natura, a quanto coraggio occorresse per essere come siamo e vogliamo e non come gli altri ritengono giusto che dobbiamo essere, a quanta onestà ci volesse per dire a se stessi "fermati qua e torna indietro, hai sbagliato strada!", a quanto tempo si possa sprecare per seguire una via indicata da altri, per aderire ad un modello al quale mai ci si potrà adeguare...
Il sollievo che si prova a rientrare nella propria pelle non si può spiegare, è come lasciarsi liberi di procedere verso il proprio luogo naturale, come seguendo il "pondus" del proprio essere...

"Amore meus, pondus meus" avrebbe detto Agostino...

mercoledì 22 maggio 2013

L'asfalto bagnato è il tuo specchio

L'effetto delle tempeste di fine maggio: il sublime di una pioggia quasi orizzontale.
Guardi con sospetto, di sotto in su, fuori dalla finestra e non capisci che sensazione ti dia... Potresti essere sotto quella pioggia in fondo e forse vorresti... Invece devi chinarti e leggere presunte direttive divine: non cadono giù dal cielo come la pioggia le direttive divine, fanno il movimento contrario!

L'asfalto bagnato è il tuo specchio, riflette tutto ciò che sei, come condizione e non come immagine...

lunedì 13 maggio 2013

La beatitudine degli oggetti

Noi percepiamo innnanzitutto l'anomalia del fatto bruto di esistere e soltanto in seguito quella della nostra situazione specifica: lo stupore di essere precede lo stupore di essere uomo. Eppure il carattere insolito del nostro stato dovrebbe costituire il dato primordiale delle nostre perplessità: è meno naturale essere uomo che essere e basta. Questo noi lo sentiamo d'istinto; e da questo deriva la voluttà che proviamo tutte le volte che ci distogliamo da noi stessi per identificarci con il sonno beato degli oggetti [E. Cioran, La caduta nel tempo].
Di tutta la citazione, irrimediabilmente, mi resta impigliata nella mente l'ultima espressione: "il sonno beato degli oggetti". Che cosa rappresenti questo stato lo si può esprimere solo con la parola beatitudine, alla quale tuttavia segue, quasi fosse un occulto sinonimo, la parola morte. Essere un oggetto vuol dire sostanzialmente morire alla propria umanità mediante l'annullamento di ogni pulsione vitale. Ogni pulsione è una tensione verso ciò che manca, l'espressione dolorosa di un'assenza: è propria dell'oggetto l'assenza della mancanza stessa dunque della possibilità del dolore. In quanto oggetto l'uomo sarebbe beato: si tratta probabilmente del paradosso dell'umanità che, fin quando resta tale, non può ottenere ciò che più desidera, il non desiderare più.

giovedì 2 maggio 2013

Il chissà dove

Siamo solo a maggio e già inizio a percepire gli inconfondibili sintomi del "mal di sole": non riesco a ripescare i miei pensieri, che sembrano totalmente assorbiti dal chiarore diffuso oltre la finestra. E già sto con un occhio ai libri e l'altro chissà dove, ed è il chissà dove che conta, che mi condiziona l'umore e le giornate. A seconda dei viaggi clandestini che la mente compie la giornata prende la sua piega.
La primavera è così, apre le porte della dissoluzione, quasi non ci sia più un netto confine tra il tuo corpo e l'ambiente in cui è immerso: senti che c'è ma è un corpo esteso e dissolto, non più propriamente tuo. Si prepara a diventare il tuo nemico estivo.

mercoledì 24 aprile 2013

Un bacio vi seppellirà tutti

"Sorrideva, convinta di aver trionfato sulla mia pazienza: stavo finalmente per fare quello che sperava, inveire, affrontarla, schiaffeggiarla, avrebbe vissuto la sua ora di gloria, mi aspettava.
Presi il suo volto tra le mani e incollai le mie labbra alle sue. Misi a profitto le deficienze di Renaud, Alain, Marc, Pierre, Thierry, Didier, Miguel, ecc. per improvvisare, con scienza infusa e istantanea di quel linguaggio, quanto l'essere umano ha inventato di più assurdo, di più inutile, di più sconcertante e di più bello: un bacio cinematografico.
Non mi fu opposta resistenza. E' vero che beneficiai del più assoluto degli effetti-sorpresa: c'è un valore aggiunto all'inatteso. In quel braccio di ferro del bocca-a-bocca, la trattai con i guanti
Quando le ebbi esposto a lungo il mio modo di pensare, la respinsi e mi voltai verso l'anfiteatro sbigottito e ilare. Con un trionfo schiacciante, chiesi con voce sonora a quei degenerati in soprannumero:
- Altri candidati?
La mia gittata era immensa. Lanciatrice d'asta di alto livello, dovevo solo afferrare ottanta alabarde e trafiggerli tutti. Ma in una mansuetudine senza limiti, mi accontentai di squadrarli con tracotanza, di fulminare con un'occhiata qualche faccia non troppo spregevole e di abbandonare la sala, lasciando dietro di me una povera vittima distrutta che mordeva la polvere" [Amélie Nothomb - Antichrista]

Perché questo lungo passo di un libro sconosciuto ai più... Come prima cosa rispondo che mi piace la scena in sé, dal punto di vista puramente estetico: è come assistere, alla fine della lettura, all'incontro/scontro del bianco e del nero sul piano cromatico, senza che si fondano nel grigio (non a caso la protagonista del breve romanzo si chiama Blanche).
Come seconda cosa mi piace quello che la scena significa: a volte l'unico mezzo che si ha per debellare chi odia senza motivo è colpirlo con un gesto d'amore senza motivo. Christa e Blanche, stessa età, sedici anni, esseri diametralmente opposti; per tutto il romanzo la prima non fa altro che perseguitare la seconda, facendo leva sulle tipiche insicurezze adolescenziali, al culmine della crudeltà della prima la seconda non trova mezzo migliore, per metterla fuori gioco, di un "bacio cinematografico" di fronte ad un'ampia platea. 
Il gesto contro ogni logica funziona: della serie "un bacio vi seppellirà tutti"!

giovedì 18 aprile 2013


Mi spieghi che dietro ogni campo di grano c'è il Divino, c'è Van Gogh.
Invece temo il peggio.

martedì 16 aprile 2013

Sognando di sognare

Inizio a pensare che ci sia un qualche tipo di collegamento tra il clima e la mia attività onirica che, da quando il sole ha deciso di palesarsi in tutto il suo splendore primaverile, ha ripreso il suo corso di buona lena non appena mi appisolo.
Questo pomeriggio, però, dopo il crollo post corsi al risveglio mi è toccato risvegliarmi di nuovo. Spieghiamoci meglio: ho fatto un sogno di borgesiana memoria nel quale sognavo di sognare... Al risveglio reale (si spera almeno, magari sto ancora dormendo, chi lo sa...) ero leggermente confusa. Tanto nel sogno, quanto nel sogno contenuto dentro al sogno, la luce era la stessa della realtà, ero al chiuso ma fuori c'era il sole; il sogno nel sogno è stato brevissimo, abbracciavo con tutte le mie forze una persona mai vista e per di più completamente nuda, sapevo di doverla stringere perché non sparisse all'improvviso. Lo sforzo fisico è quello che resta nell'altro sogno una volta che mi sono svegliata dal primo, sono ancora completamente tesa e ci metto un po' per rilassarmi prima di iniziare ad aggirarmi nel luogo in cui mi trovo che è una specie di reggia in mezzo alla campagna con stanze immense ma anche la mia università. Mi trovo davanti gente conosciuta intenta a fare cose senza senso... 
A questo punto penso di essermi svegliata per la seconda volta.

giovedì 11 aprile 2013

Con la primavera il sonno...

E alla fine giunse la primavera e con essa il mio grande sonno...
Da un paio di giorni a questa parte mi alzo più stanca della sera prima e mi muovo tra la gente come una sonnambula, almeno fino a quando il sonno non arriva per davvero e mi storidisce per l'intero pomeriggio...
Il mio cervello inizia a connettere e a dimostrare di avere una vita propria solo verso le sei di sera: molto confortante! Per il resto della giornata non aspettatevi da me segni di vita eclatanti...

sabato 6 aprile 2013

Il mestiere dell'artista non esiste

Credo di aver esagerato leggermente con lo studio negli ultimi tempi, lo capisco dal fatto che mentre sto facendo tutt'altro (mentre lavo i piatti ad esempio) mi vengono in mente considerazioni del tipo: "un genio non potrà mai vivere una vita normale". Mi vengono così, come se stessi pensando "forse dovrei aggiungere un altro po' di sapone". Tanto vale quindi approfondire la questione che si fa largo nella mia testa ogni volta che sento dire o leggo che un artista, uno scrittore degno di questo nome, in fondo non sia che un uomo come gli altri, che differisce solo per quella particolare capacità, come se l'arte fosse una sorta di accessiorio che l'essere umano possa indossare a proprio piacimento, senza che essa condizioni la sua esistenza in maniera determinante. La cosa mi fa sorridere, perché evidentemente chi dovesse pensarla in questo modo dimostrerebbe di aver confuso l'arte con un qualsiasi mestiere, che si apprende e si può, eventualmente, scegliere di cambiare da un giorno all'altro. Il cosiddetto genio dell'arte non vive e non può vivere come gli altri uomini, per quanto si sforzi di farlo e per quanto a volte le apparenze sembrino dimostrare il contrario, il genio si può solo adattare malvolentieri o iniziare a modificare la realtà che lo circonda. Il solo ruolo che può occupare nella società è quello dell'antisociale per il semplice fatto che l'arte coincide con la sua esistenza, la qual cosa equivale a dire che non vivrà mai secondo le leggi della realtà.

martedì 26 marzo 2013

lunedì 25 marzo 2013

Piccola nota su Kafka

Tra le opere di Kafka che mi è capitato di leggere (Il processo, America, La metamorfosi e qualche altro racconto) Il Castello è quella che trovo più inquietante per molti aspetti ma sicuramente tutti sono riassumibili nella figura stessa del castello che dà il nome all'opera. Ci si aspetterebbe (almeno io me l'aspettavo) che il famoso castello rappresenti quanto meno il luogo dell'azione, invece ci si ritrova di fronte ad una costruzione lontana, alla quale tutti fanno riferimento, perché da esso dipende la vita degli abitanti del villaggio dove giunge il protagonista, e tuttavia non si riesce a capire chiaramente in che modo tutto possa dipendere dall'insolita costruzione, un'immensa ed instancabile macchina burocratica i cui funzionari sono inavvicinabili quasi quanto il castello stesso. 
A tratti si ha l'impressione che sia tutta una costruzione della mente, che alla fin fine il castello sia vuoto e a tenere in piedi gli ingranaggi della macchina siano quegli stessi individui che vi sono sottomessi; eppure il protagonista è completamente in balia della misteriosa forza che gli impedisce di avvicinarsi al luogo del potere, quello stesso luogo il quale, sembrerebbe per errore, è stato origine, anni prima, della decisione di assumerlo al villaggio quale agrimensore. 
Il castello sembrerebbe quasi la metafora di tutte quelle forze invisibili che dominano l'uomo ma che, non di meno, sono costruzioni dell'uomo stesso, è la morale, è il destino, è Dio, se vogliamo, tutto ciò che l'umanita crea e pone al di sopra di se stessa per potervisi assoggettare in cambio di un po' d'ordine.
In fin dei conti, coloro che impediscono a K. di fare irruzione nel castello, presentandolo come inaccessibile, sono gli abitanti del villaggio, perché la possibilità di sovvertirne l'ordine esiste, K. la sfiora e non se ne accorge. 
Per quanto remota sia la possibilità, ogni essere umano è un potenziale distruttore di castelli.

domenica 24 marzo 2013

Bugie senza colpa: settimo risveglio


E col settimo si può chiudere...

SETTIMO RISVEGLIO

Quando aprii gli occhi sul mondo, mi resi conto della stranezza del sogno nel quale ero stato immerso fino a quel momento, se di sogno si era trattato, visto che, fino ad allora, avevo preso per reale tutto quanto e forse, persino in quel frangente, stavo sognando di aver sognato.
C’erano tanti esseri che si affaccendavano sin dai primi istanti del loro risveglio nel mio sogno, mentre io… Cosa stavo facendo io?  Semplicemente mi svegliavo dalla realtà.
Già in piedi e non disteso, senza tutte quelle pratiche particolari che gli esseri del mio sogno avevano messo in scena dopo il risveglio, mi misi in cammino. Era quello il mondo reale, un deserto, nulla di più. C’ero solo io in quel deserto senza costruzioni, senza traccia alcuna di passaggio prima del mio.
Iniziavo a ricordare per quale motivo avessi cercato rifugio in quel sogno, dove tutto era in movimento, dove l’unico cedeva il posto al molteplice, alla varietà. Era volontario il mio sogno? Forse lo era…
Talmente era l’abitudine alla distinzione e all’artificio che quasi mi stupii nello scoprirmi senza uno straccio addosso e totalmente in bilico tra i due sessi. Era stato un gioco, tutto un grandioso gioco della mia mente la distinzione! Di me avevo fatto molti, da un unico sesso indistinto ne avevo ricavati due: era stata una strana esprerienza la scissione e, dopo tutto, avevo creato un gran caos e tanto smarrimento, perché tutte quelle proiezioni di me, in fondo, sapevano di essere uno e che altro era solo un modo diverso per dire io. Davvero una bella messa in scena!
Avanzavo in quello spazio vuoto che, mentre dormivo, avrei definito Nulla e cercai di calcolare per quanto tempo avessi dormito. Ma mi ingannavo ancora! Il tempo era un’altra delle mie invenzioni oniriche, un’altra arbitraria divisione di un’unità indistinta. Non potevo più pensare in termini di tempo; il battito delle mie ciglia era miliardi di anni e i miliardi di anni erano svaniti senza dolore, perché, fondamentalmente, neppure il dolore esiste dove c’è unità: se è la divisione a determinarlo, come può esistere laddove la divisione, in tutte le sue forme, è solo illusione?
Osservai il mio Nulla con amore: era esso la condizione grazie alla quale era stato possibile il mio sogno; eppure di quel Nulla eterno ne avevo avuto abbastanza e così la realtà aveva fatto irruzione nella mia mente. Ma che dico? Irruzione? A dire il vero c’era già da sempre e si era solo resa manifesta nel sogno, il mio sogno reale, con tutte le sue tragiche distinzioni, con la sua bellezza decomposta; è difficile mettere insieme i pezzi di una bellezza in frantumi e, solo in stato di veglia, potevo sapere cosa fosse la bellezza nella sua unità.
Procedevo nel deserto senza ostacoli, perché il Nulla non ha confini, ripensando agli affanni e alle gioie dei miei frammenti umani: era stato come guardarsi in uno specchio andato in pezzi e vedere un numero infinito di sfaccettature di sé. Quale modo migliore per vedersi, osservarsi, conoscersi? I sogni illuminano! Sembra tutto messo a caso e, invece, c’è un filo: io li avevo visti tutti i fili, perché li avevo creati.
Mi fermai in uno degli infiniti non-punti di quel non-spazio del quale ero parte. Ero al punto di partenza perché lo spazio nel Nulla non esiste e tutti i punti di partenza sono punti di arrivo. Non ci sono distanze da percorrere, tutti i punti sono uno solo. Quante distanze avevo escogitato per i miei frammenti umani! Le distanze sono separazioni e le separazioni sono illusioni oniriche.
Richiusi gli occhi e la realtà ricomparve: erano trascorsi tre minuti o tremila anni, per me non c’era differenza. Tutto era come lo avevo lasciato; i miei frammenti umani intenti a percorrere le loro distanze, ad impiegare il loro tempo, a soffrire per le loro differenze, per il loro non essere gli uni gli altri. Soffrono per un’illusione: loro sono i loro altri!
M’immersi nel sogno e ridiventai ciascuno di loro.

sabato 23 marzo 2013

Bugie senza colpa: sesto risveglio

SESTO RISVEGLIO

Il telefono suonò cinque, forse sei volte, prima che mi alzassi dal pavimento e andassi a rispondere.
La voce di mia madre m’investì determinando l’immediata reazione delle mie tempie doloranti.
- Tesoro, tutto bene? Perché non rispondevi?
Fissai per un istante il punto del pavimento dove ero stata distesa appena trenta secondi prima. E poi il caos, caos ovunque.
- Scusa mamma… è solo che… che ero molto stanca e ho dormito tanto… più del solito…
Mi massaggiai le tempie con le dita e sbadigliai.
- Oh lo sento cara! Hai fatto colazione?
- No mamma, te l’ho appena detto… dormivo e…
- E allora devi assolutamente correre a farla!
Dopo un sì che nascondeva appena la noia, ascoltai le svariate raccomandazioni che stonavano decisamente con la mia età, i suoi saluti prolungati e riagganciai.
Poggiai le spalle alla parete e mi lasciai scivolare fino a terra: sotto gli occhi la mia casa sottosopra!
Com'era possibile che fossi stata capace di combinare quel disastro? Eppure l’avevo fatto, ricordavo ogni singolo gesto dettato dalla rabbia, ogni oggetto infranto, ogni pulsazione del mio essere in preda allo slancio distruttivo. E alla fine cosa avevo fatto? Mi ero disposta al centro della mia opera, tutta dolorante, e mi ero addormentata.
C’erano fogli di libri e quaderni strappati sparsi ovunque, bicchieri, tazze e piatti sbriciolati, mobili danneggiati e, quelli che non erano danneggiati, non erano al loro posto, come le sedie che erano finite tutte a gambe all'aria.
Cosa diavolo mi era preso? Ero una creatrice non una distruttrice! Guardai le mie tele a terra, tutte distrutte, tagliate, sfondate.
Qual era il limite tra il creare e il distruggere? Spesso nella mia testa si confondevano e, per poter creare, avevo bisogno di radere al suolo tutto il mio mondo.
Ecco cos'era successo la sera prima, un sabato come tanti, a casa da sola come al solito. Avevo preso il pennello in mano e l’avevo fissato inebetita per un tempo indeterminato, proprio come ora contemplavo ciò che restava delle mie cose; subito dopo, invece di intingerlo nel colore, mi ero ritrovata a spezzarlo in due parti. Poi avevo sbattuto per terra la tela che si trovava sul cavalletto… E così via in una colata libera di rabbia emersa da chissà quali profondità, una rabbia primitiva, devastante, esaurita la quale, mi ero ritrovata al centro della spirale dei cocci della mia vita, senza più un briciolo di forza.
Accesi una sigaretta dopo aver ripescato il pacchetto da sotto un mucchio di vestiti, precedentemente lavati e stirati, eppure gettati a terra come un cumulo di stracci. Mi fecero pensare che non potevo permettermi di fare la stessa fine, perché non ci sarebbero state delle braccia caritatevoli a tirarmi su; non avrei avuto nessuno lì pronto a porre rimedio alle spiegazzature. No, proprio non potevo permettermelo!
Per l’ennesima volta prendevo la rincorsa, mi precipitavo a perdifiato e con gli occhi chiusi verso il baratro e, sull'orlo del precipizio, mi arrestavo. Avevo dato un’occhiata giù, come tante volte, per poi voltare le spalle e tornare indietro, fino al punto da dove avrei potuto prendere di nuovo la rincorsa.
Finii la sigaretta e mi tirai su. Raccolsi il posacenere, e dopo quello raccolsi i vestiti sparsi ovunque, poi rimisi al loro posto i libri e quei quaderni di appunti che si erano salvati. Pezzo dopo pezzo rimisi in ordine il mio appartamento devastato e riempii due sacchi della spazzatura di oggetti irrimediabilmente danneggiati.
Fuori aveva iniziato a piovere da un po’; guardai la strada sotto la mia finestra che, a una prima occhiata, mi era sembrata deserta. Ben presto, però, mi resi conto di due ragazzi che attraversavano tranquillamente, tenendosi sotto braccio. Due folli o due innamorati? Secondo alcuni la differenza era nulla. Pensai che io, folle per amore, non lo ero mai stata e, forse, mai avrei sperimentato un simile stato di grazia. Probabilmente non ero predisposta all'amore, perché l’amore è una forma di sovrabbondanza e, a me, mancava l’essenziale. Senza accorgermene avevo scarabocchiato dei cuoricini con le dita sui vetri appannati dall'umidità: cancellai tutto col palmo della mano ed andai a recuperare l’unica tela bianca che era rimasta intatta; la posizionai sul cavalletto e la osservai in piedi a braccia incrociate, in attesa che da quel bianco emergesse la figura che stavo cercando. Lo spazio prese forma: non una figura nello spazio ma dello spazio, che esigeva di venire alla luce. Lasciai che si cullasse ancora un po’ nella mia testa perché, intanto, mi era tornata in mente la voce di mia madre che m’intimava di andare a fare colazione.
Tirai fuori il latte dal frigo (che fortuna che non fosse finito ad imbiancare le pareti!) e con esso quanto di più dolce fosse rimasto in dispensa: volevo provare a creare artificialmente quella sovrabbondanza d’amore di sé che mi avrebbe permesso di amare anche gli altri. L’artificialità è decisamente sottovalutata, può rivelarsi una delle cose più piacevoli che esistano.
La colazione a base di zuccheri durò a lungo e, quando ebbi finito, notai che la pioggia cadeva ormai esausta e stava per cedere il passo ad un timido sole. Pensai che nel pomeriggio sarei potuta uscire, contrariamente ad ogni proposito di reclusione, tanto più che avevo bisogno di ricomprare il materiale che avevo fatto a pezzi.
Possibilità su possibilità mi si accumularono nella testa, come accadeva sempre dopo uno dei miei momenti distruttivi: era come svuotarsi, fare piazza pulita di tutto e lasciare, quindi, uno spazio vuoto che accogliesse tutte quelle possibilità.
Il vuoto, nella mia testa, era potenza pura e i miei atti distruttivi, che miravano a crearlo, non erano null'altro che una malcelata volontà di potenza.
Dipingevo spazi vuoti dopo essermi svuotata, dipingevo la possibilità e mai il mero residuo attuale di tale possibilità.
Messe da parte le considerazioni di ordine filosofico, mi sistemai per bene, indossai l’impermeabile ed uscii subito, chiudendomi la porta di casa dietro le spalle.

venerdì 22 marzo 2013

Bugie senza colpa: quinto risveglio



QUINTO RISVEGLIO

Finii per svegliarmi al ritmo incalzante delle gocce d’acqua che tamburellavano sul tettuccio dell’auto: tanti piccoli tamburi tribali! E se fuori il rumore ricordava quello di una serie di bonghi regolarmente percossi, nella mia testa c’era un’intera orchestra scoordinata. Sentivo le tempie pulsarmi e l’alcool della sera prima mi aveva lasciato un pessimo sapore in bocca. Ero al posto di guida e mi piegai in avanti fino a toccare il volante con la testa.
Fu a quel punto che mi accorsi della tipa che dormiva scomposta sul sedile di fianco; la guardai bene: lunghi capelli di un castano chiarissimo, una bocca con labbra sottili dalla quale colava un rivolo di saliva, trucco devastato, vestiti stropicciati…
Chi cavolo era quella?!
Mi passai le mani tra i capelli che trovai completamente induriti dal gel della sera prima: avevo assolutamente bisogno di una doccia!
Dopo qualche minuto di riflessione mi decisi a svegliare la ragazza che ronfava della grossa sul sedile del passeggero ma, non appena la toccai, cacciò un urlo stridulo e fece un balzo tale che per poco non si schiantò con la testa contro il tettuccio dell’auto.
- Ehi! Stai tranquilla! – le urlai con le mani alzate, al fine di dimostrare tutte le mie buone intenzioni.
- Tu chi sei? – mi urlò per tutta risposta.
- Visto che questa è la mia auto questa domanda dovrei farla io a te, non credi?
Tacque.
- Che ci fai nella mia macchina? Non ti ho… incontrata ieri in quel locale, vero?
- Non mi sembra di averti visto lì – rispose lei, come a voler confermare che lì c’era stata anche lei in effetti.
- Ho capito. Quindi com’è andata?
- Beh, ti ho visto che dormivi in auto, l’auto era aperta e ho pensato che non avrei dato fastidio se mi fossi messa a dormire un po’ anch’io…
- Ah, ecco… - risposi con non poca perplessità; tuttavia avevo fretta di tornare a casa e rilassarmi, quindi misi a tacere i miei dubbi, presi per buone le sue risposte e le chiesi dove abitasse per accompagnarla a casa. Mi rispose indicando la palazzina di fronte al locale davanti al quale eravamo parcheggiati. La perplessità tornò di nuovo a bussare alle porte della mia testa.
- Vuoi che ti porti in braccio fino a casa allora? – le domandai ironicamente.
Ignoravo che, quando le giornate iniziano in maniera assurda, tutto sembra volto poi a confermare quell’assurdità: la ragazza fece cenno di sì con la testa.
Scoppiai a ridere, dopodiché scesi e andai ad aprirle lo sportello, stiracchiandomi sotto la pioggia battente mentre facevo il giro della macchina.
- Non credo che riuscirei a portarti in braccio fino a casa, sono fuori allenamento… Però posso portarti sotto braccio eh!
A quel punto si decise a prendere la mano che le stavo porgendo e scese; in piedi sembrava più piccola di quanto non fosse apparsa ad una prima occhiata in macchina.
Mi prese effettivamente sotto braccio e attraversammo la strada, incuranti della pioggia che continuava a cadere.
- Ieri sera ho abbandonato la mia migliore amica ad una festa per seguire un ragazzo nel locale qui di fronte – mi disse senza alcun preavviso e senza che io le avessi chiesto nulla.
La incitai a continuare.
- Ho provato a chiamarla ma non risponde al cellulare. Ora sono delusa perché il ragazzo mi ha piantata in asso a metà serata e mi sento in colpa perché non so che fine abbia fatto la mia amica.
Ho l’abitudine della sincerità: brutto vizio in certi contesti!
- Direi che ti sei comportata da schifo!
Corrugò la fronte e cambiò tono.
- Lo so! Non c’era bisogno che me lo dicessi anche tu!
- Non te la prendere, ti volevo mettere di fronte alla realtà. Ѐ probabile che la tua amica sia incazzata di brutto a quest’ora e che per questo non risponda al telefono.
- Ѐ probabile – rispose con un tono già mutato, mentre entravamo nella palazzina dove abitava, bagnati per tre quarti.
L’ascensore probabilmente era rotto, perché prese a salire lentamente le scale senza neppure guardarlo: scale anonime, contornate da pareti grigiastre, come si addice ad un luogo di transito che si rispetti, un luogo dove nessuno vorrebbe restare più a lungo dello stretto indispensabile.
Salivo, e intanto mi chiedevo come fosse potuto accadere che, appena sveglio, mi fossi lasciato coinvolgere in quella faccenda surreale. Salivamo, e sembravamo due anziani pieni di dolori, tanto che pensai che forse sarebbe stato più semplice se l’avessi portata a casa in braccio per davvero.
- A che piano abiti?
- Secondo.
Tirai un sospiro di sollievo: quelle scale sembravano allungarsi ad ogni passo e, se mi avesse detto di abitare al quarto o quinto piano, l’avrei mollata lì a continuare da sola quella solenne ascesa, per fuggire il più lontano possibile; ma, arrivati a metà percorso, si fermò.
- Meglio se ci salutiamo qui, tra poco dovrò vedermela con i miei genitori, che ti assicuro saranno molto più incazzati della mia amica!
- Come preferisci – le risposi, cercando di assumere un’espressione contrita, mentre dentro, in realtà, fui più che sollevato.
Lei riprese la salita, io aspettai qualche secondo e poi mi precipitai giù, saltando due gradini per volta.
Uscendo in strada, sotto una pioggia più leggera, pensai che non le avevo neppure chiesto come si chiamasse; subito dopo, come in un battibecco con me stesso, mi dissi che neppure mi interessava saperlo in fondo.
Nell’atteggiamento di quella ragazza avevo letto una vena di squilibrio che m’inquietava non poco: la cosa mi spaventava, tuttavia mi spavantava ancora di più il fatto che, quella stessa vena, avesse suscitato su due piedi la mia simpatia. Generalmente, quando fuggiamo, lo facciamo da qualcosa che abbiamo dentro, dal riflesso esterno di qualcosa che abbiamo dentro per la precisione.
Saltai in macchina e, prima di mettere in moto, lanciai un’occhiata al sedile vuoto. Per sicurezza guardai anche i sedili posteriori: ormai mi aspettavo qualsiasi cosa!
Di fronte al vuoto risi di me stesso e partii.