sabato 10 febbraio 2024

Riflessioni che non dovrei fare ma faccio lo stesso

Mi dico sempre che non devo scrivere su argomenti di tendenza, ma poi la filosofa che è in me prende il sopravvento e addio buoni propositi! Pensando al tutto il polverone che si sta alzando intorno alla questione raccomandazione in relazione ad Angelina Mango, Sanremo e via dicendo, mi veniva da fare una riflessione. Studiando un pizzico di sociologia culturale, tanti anni fa, mi è capitato di assimilare questa idea: ciascuno di noi nasce, metaforicamente, con una zavorra e un sacchetto di monete, entrambi di peso variabile. Fuor di metafora, il luogo in cui veniamo al mondo, il gruppo sociale, la famiglia etc. ci trasmettono pesi e opportunità (nel senso più ampio possibile, dalla genetica alle possibilità di lavoro e arricchimento, fino ai traumi) e la combinazione di questi fattori non è mai una ricetta che dà risultati sicuri. Non basta dire “ha talento, è di buona famiglia, ha gli agganci giusti” per dedurre “quindi otterrà tutto ciò che vuole nella vita”. È sicuramente più probabile, ma i fattori in campo sono potenzialmente infiniti. Viceversa, è probabile che chi ha talento, ma proviene da una famiglia, da un contesto che non possono offrire sostegno (economico, psicologico, sociale…) non arrivi là dove meriterebbe di arrivare. È tutta questione di probabilità, di c**o direbbe qualcuno… A meno che non si voglia accettare una forma radicale di determinismo, e pure in quel caso ho sempre pensato che noi umani non abbiamo i mezzi per conoscere tutte le variabili in campo. Quel margine di incomprensibile della vita lo chiameremo sempre libero arbitrio e forse è giusto che sia così. Tornando a Sanremo e ad Angelina, sarà pure partita da una posizione privilegiata (e pure qui ci sarebbe da riflettere), sarà pure che, a parità di bravura, ci sono tanti figli di nessuno che non arrivano a Sanremo, ci saranno altre mille ragioni che l’hanno portata lì dove sta… Il punto è che ci sta bene. Se avesse avuto un altro cognome, forse non sarebbe arrivata a Sanremo? E chi può saperlo? Qualcuno ci metterebbe la mano sul fuoco? Mi sposto sul personale e metto il dito in una delle mie tante piaghe, per far comprendere meglio il discorso. Io scrivo e finora ho pubblicato solo per piccole case editrici. Per ragioni che non stiamo qui a indagare, non ho mai pubblicato e forse mai pubblicherò per Feltrinelli, Einaudi, Mondadori e così via. Conosco un pochino i meccanismi dell’editoria, che talvolta mi indignano, ma stamattina ho comprato un libro di José Saramago (Feltrinelli) e di Chiara Valerio (Einaudi). Tralasciando le enormi diversità e le sottigliezze, Saramago e Valerio sono lì per raccomandazione? Per svariati colpi di fortuna? Boh, potrebbe essere. Intanto hanno qualcosa da dirmi, quindi li ascolto. Risulterò forse poco “intellettuale”, ma pure Angelina Mango penso abbia qualcosa da dirmi, quindi l’ascolto.

martedì 25 luglio 2023

Case fiorentine da incubo. Parte 1: la casa con due bagni

Ale e io rispondiamo a un annuncio su uno dei tanti siti che ormai ispezioniamo da mesi. Dalle foto, come spesso accade, non si comprende benissimo quali siano le reali condizioni della casa, però è a Firenze centro, a dieci minuti dal mio posto di lavoro, e soprattutto il costo dell’affitto, di “soli” 700 euro + spese, rientra nel nostro budget. Fissiamo un appuntamento. La casa sembra luminosa dalle foto, c’è addirittura un balconcino e pare ci siano niente di meno che due bagni! Ci chiediamo che cosa abbiamo fatto perché cotanta fortuna sia toccata a noi… Certo, il pavimento sembra messo un po’ male dalle foto, ma ci si può passare su… in tutti i sensi. Arriviamo davanti al portone. Ci accoglie l’inquilina prossima al cambio di abitazione affacciandosi alla finestra e gridandoci di salire. Già sulle scale notiamo le scarse condizioni igieniche della palazzina. Vedo Ale che con lo sguardo comincia a cercare la via di fuga, ma non ci scoraggiamo. Scopriamo subito, dalla lista che l’inquilina tiene in mano, che ci sono altre sedici persone, oltre a noi, a contendersi la “reggia”, quindi bisogna guardare tutto in fretta, decidere prima di subito e comunicare ieri al proprietario se la casa ci piace per bloccarla. L’ingresso sembra quasi normale, quasi perché è evidente che il pavimento sconnesso in cotto è più sconnesso di quanto apparisse in foto. Insomma, è chiaro che dal 1920 circa non è stato cambiato. In giro ci sono anche tante piante, ovunque, su ogni ripiano, da quello del frigo a quello della malmessa lavatrice. L’effetto Amazzonia è forte, ma supponiamo, speriamo che gli inquilini le porteranno via con sé. Niente contro il tentativo di dare un polmone verde a Firenze, magari bastano le Cascine… Passiamo alla camera da letto, che sembra accettabile, ma ovviamente quasi nulla di ciò che c’è resterà lì. Il pezzo forte, però, sono i bagni! Uno lo vediamo già all’entrata; c’è la doccia, il bidet (merce rara a Firenze centro!), il lavandino… e basta! Una porta – che è più una tavolaccia verniciata – completa il quadro. Ci chiediamo dove sia l’altra parte del bagno, a questo punto. E dove potrebbe mai essere se non in cucina!? È ovvio che il posto migliore in cui posizionare il water (insieme a un microscopico lavatoio) sia dietro una porta (?) piena di buchi e che non si chiude bene, a due passi dal tavolo da pranzo (che – per inciso – giace sotto il peso di un altro vaso con rigogliosa pianta)! Inizio a vedere l’espressione di disgusto che si dipinge sul volto di Ale. Già ce l’ha di default, ma in casi speciali come questo si accentua esponenzialmente. Posso quasi vedere i suoi pensieri, intenti nella ricostruzione della giornata ideale in quella casa così… verde. Anche il balconcino, l’altro “lusso” della casa, ci riserva una sorpresa. A discrezione dell’utente può diventare un trampolino di lancio verso il vuoto, perché il parapetto è costituito da una tavola di legno messa lì ad hoc. Facciamo qualche domanda di routine, veloce e con un certo imbarazzo. Ale sta già con un piede fuori dalla porta, pronta alla fuga. Promettiamo di pensarci, di contattare eventualmente il proprietario. Ce ne andiamo consapevoli che a Firenze una casa con due bagni non la troveremo più. La supererà, forse, solo quella con il water nella doccia, che abbiamo deciso a malincuore di non visitare.

giovedì 22 giugno 2023

L'invisibile parola fine all'inizio di ogni libro

 

Durante un corso all’università un mio professore disse che si potrebbe scrivere un libro sulla storia di ogni libro. Il riferimento era a Catullo, ma penso che questa affermazione possa essere valida anche per molti libri di oggi. Sì, perché il libro – quell’oggetto composto di pagine e inchiostro che uno si ritrova a leggere – è il punto di arrivo di un processo e su ogni prima pagina ci dovrebbe essere scritta la parola “fine”.

Ogni volta che ho dato l’ok alla pubblicazione di un mio testo, ho provato una sensazione di resa incondizionata. Ho deposto le armi che avevo rivolto contro me stessa e si è placato il demone che mi suggeriva incessantemente di rimaneggiare tutto, di tagliare, aggiungere, talvolta di cestinare ogni cosa. Perché è ovvio che un’idea si possa esprimere sempre con più chiarezza, che una scena si possa descrivere con parole più esatte. Il meglio è sempre una virgola più in là. Il limite a questa avanzata potenzialmente illimitata va posto “artificialmente”. È, appunto, l’invisibile parola “fine” posta all’inizio di ogni libro.

I giorni di Saturno è stato materia soggetta al cambiamento per anni. Le prime righe le ho scritte subito dopo la pubblicazione del mio primo romanzo, Le tele di Valerie. Mi ero laureata da poco, come una delle due protagoniste. Avevo venticinque anni e il vuoto davanti. Dopo un’eccellente (stando a quanto dicevano i numeri) carriera universitaria, mi ero arenata completamente. Stavo sperimentando nella maniera più bruciante e brutale che tutto quello in cui avevo creduto era soltanto splendida aria fritta.

Edizioni Montag
Foto di copertina: Alessia Cinque
(@phive_project)

Avevo bisogno di demolire la mia vecchia vita e imparare a credere in qualcosa di diverso. È in questo clima che si è formato I giorni di Saturno, è nato da quel peso che ha aumentato la gravità dentro me fino al collasso di buona parte delle mie convinzioni.

Avevo venticinque anni e una parvenza di soluzione ai problemi di allora si è affacciata timidamente alla mia esistenza quasi dieci anni dopo. Solo dopo un’infinità di catastrofi emotive, un paio di traslochi dell'anima e qualche nuovo valore da edificare a colpi di consapevolezza, si è stabilita la giusta distanza tra me, Sibilla ed Elena, le protagoniste del libro. Solo adesso possono camminare da sole.

I giorni di Saturno uscirà a fine giugno.



lunedì 25 luglio 2022

E tu, vuoi lavorare in un call center?

Quando decidi di cambiare città, cambiano anche le esigenze, dunque ti rimbocchi le maniche e, da brava giovane che non vuole lavorare, ti metti alla ricerca di un lavoretto (il terzo) che possa in qualche modo rendere dignitose le tue entrate.
E allora, inevitabili come la morte, come il discorso di Mattarella a Capodanno, ti piombano davanti i call center con i loro accattivanti annunci, con gente che sorride a 39 denti. 
Sai di averli scartati già anni fa, sai che hanno una fama peggiore di quella di Enea e Didone quando la Fama li sput**na, ma ti dici che forse forse un tentativo lo puoi fare.
Allora mandi il curriculum e loro ti contattano! Ti contattano pure subito! Perché tanto mica hanno perso tempo a leggerlo il curriculum! Ma questo lo scopri dopo...
Per non tirarla per le lunghe, chiedo subito informazioni che a una persona che lavora seriamente non dovrebbero interessare, ad esempio le ore lavorative, la paga, il tipo di contratto. Mi dicono che c'è un fisso di 400 euro, per quattro ore di lavoro al giorno da casa, per cinque giorni a settimana, con un contratto di collaborazione continuativa. Mi faccio due conti e mi dico che tutto sommato, se posso stare a casa e mi danno un fisso, può valerne la pena di prendersi qualche parolaccia e un centinaio di telefoni chiusi in faccia. Anche se, facendo un calcolo anche più rapido, 400 euro, diviso 100 ore mensili (che sono quelle richieste), sono 4 euro all'ora... Ma non facciamo troppo gli snob, su! In fondo mica te l'ha ordinato il medico di scegliere il classico, e poi filosofia, e poi di iscriverti ancora all'università a lettere classiche! 
Subito però mi sorge un dubbio: la tipa con cui ho parlato non ha specificato se fossero netti o lordi i 400 euri. Dopo una piccola epopea per ricontattarla, mi dice che ovviamente sono lordi... ma non mi devo preoccupare, eh! Ci sono i bonus, i premi, i superpremi e il cinquepermilleallachiesacattolica! In ogni caso mi spiegherà tutto la tutor nei tre giorni di formazione.
Sorvolo sui programmi da scaricare e tutto il resto e arrivo a oggi, il tanto atteso PRIMO GIORNO DI FORMAZIONE!
Siamo tutte donne, di età diversa, provenienti da luoghi d'Italia diversi, stando all'accento. Ci chiedono subito se abbiamo avuto esperienze nel settore in precedenza e, tranne la signora che ha fatto la cartomante (divertendosi pure tantissimo a quanto pare), siamo tutte più o meno novelline.
Ascolto. Seguo i discorsi come ero solita fare durante le lezioni all'università. E purtroppo scopro che la filosofia mi ha trasformato in una specie di Laocoonte (però mi sto zitta e mi risparmio i serpenti stritolatori). Capisco al volo dove vogliono andare a parare le nostre tutor quando parlano, anzi prima che parlino. Capisco che dovremo raccontare un bel po' di ca**ate al cliente ("bugie bianche" me le definiscono). Capisco che venderemo una cosa della quale non capiremo un'acca neppure dopo la formazione (basta imparare a memoria un po' di formule da ripetere come un mantra). Capisco soprattutto che non ci pagheranno neppure quei circa 300 euro annunciati, perché quelli lì te li danno solo se chiudi un certo numero di contratti, altrimenti ti pagano a ore... ma ore in cui effettivamente parli, mica quelle che perdi inattivo davanti al PC! In fondo è il mio sogno proibito restare quattro ore davanti al computer completamente immobile, con le cuffie, un programma aziendale aperto ma senza fare nulla. Le ore effettivamente retribuite, se tutto va bene, sono due su quattro. Ah, e sono pagate se arrivi almeno a 15 ore, se ne fai 14 e 59 no. 
Ciliegina sulla torta? Prevedendo di farci iniziare gli ultimissimi giorni di luglio, in quel periodo saremo retribuite solo per i contratti chiusi, le ore non verranno pagate. Ora ditemi, quante possibilità di fare un contratto ha una che ha appena iniziato questo tipo di "lavoro"? Ma loro hanno la soluzione: "Se avete parenti...".
Una macchia perfetta, non c'è che dire! 
Adesso sono indecisa se seguire la seconda puntata di questa appassionante docuserie sul lavoro in Italia. E soprattutto se correre a compare le cuffie che servono per le telefonate! 

domenica 30 maggio 2021

Polvere nella polvere, briciole tra le briciole


Ci hanno trasmesso l'idea che un addio sia qualcosa che si consuma in un attimo, che sia istantaneo come una frattura netta. Nessuno ci dice mai che un addio ha tante tappe dolorose, che si consuma, invece, molto lentamente, che può durare anni. 
Un addio, a volte, è la lenta agonia di un'immagine che ci portiamo dentro, che si dibatte per continuare a sopravvivere a nostre spese. 
Un addio è un rito estenuante e non codificato, in cui dobbiamo inventare volta per volta i simboli della rottura, fino a spezzarci anche noi, tanto da renderci irriconoscibili insieme a quello che intendiamo lasciarci alle spalle. Polvere nella polvere, briciole tra le briciole.
Un addio è la tacita erosione della roccia sulla quale avevamo adagiato, al sicuro, quello che abbiamo amato. Quando finalmente ciò che pensavamo inscalfibile si sbriciola, è il peso stesso che abbiamo attribuito all'idolo a condannarlo e a restituirci la libertà.

giovedì 31 dicembre 2020

Auguri a tutti i bambini che avete dimenticato

Negli ultimi dodici mesi ho perso cose e persone e adesso mi avvio così, spoglia e leggera, verso il prossimo anno.
Ho perso la capacità di vedere il futuro e la forza di costruirlo. Posso solo accoglierlo.
Quest'anno ho tolto, tagliato, levigato, fino a quando non è rimasto nulla. Pensavo restasse l'essenziale, invece non è rimasto nulla.
Ho dubitato, tanto, soprattutto di me stessa.
Ho scritto molto quest'anno: note ovunque, prose e poesie, a volte singole parole che mi riempivano la mente come cetacei in un acquario da salotto.
Soprattutto, però, ho riscritto. Ho riscritto la mia storia, ho riscritto me stessa. Per risemantizzare tutto ho dovuto salvare una bambina che detestavo, che non riuscivo a guardare. Stava lì piena di irritante ingenuità e attendeva che la portassi via. 
E negli anni ho provato a farlo, tante volte, ma era più forte di me: mi ispirava antipatia. Era goffa e sgraziata. Non parlava e, se le chiedevi l'età, te la indicava con le dita.
Poi finalmente è successo quello che non mi aspettavo. Me la sono vista davanti a fissare le caramelle colorate di una bancarella, come una qualunque bambina.
È stato allora che il suo sguardo non mi ha suscitato più alcuna avversione, ma solo una lieve tenerezza. 
Quella bambina è l'unica "conquista" che mi porterò nel 2021. Le dovrò medicare i graffi e mi toccherà recuperarla da sotto il letto quando ci si nasconderà. So che lo farà. Ci vuole pazienza. Abbiamo tanta strada ancora da fare.
Gli auguri quest'anno li lascio fare a lei, anche se è terribilmente timida.
Auguri a tutti i bambini che avete dimenticato.



lunedì 7 dicembre 2020

Accadere

Il 2020 è la coda avvelenata di un lungo periodo difficile, come avvelenata è stata la coda di molte giornate che hanno composto gli ultimi anni. Giorni che si sono susseguiti uguali, come tanti mattoni compatti, solidi, inesorabili nel loro intento di comporre un muro alto e senza crepe. Una torre di sofferenza costruita sul mio corpo, che mi ha piegata sera dopo sera.

La coda delle giornate era avvelenata... Sì, perché inevitabilmente, chiusa la porta di casa, qualunque cosa avessi fatto nelle ore precedenti, mi sono ritrovata sola. Sola. SOLA. E mi sono chiesta se l'avevo effettivamente scelta quella condizione. Certe sere mi sono detta di sì, me lo sono detto quasi vedendomi dall'esterno, mentre fissavo il soffitto con la musica nelle orecchie. Me lo sono detto con la testa tra le ginocchia, dopo aver mollato a metà un lavoro che dovevo assolutamente finire. Me lo sono detto seduta a terra, mentre desideravo con tutte le mie forze di sparire senza lasciare alcun ricordo. E più ero sola più desideravo di esserlo, perché l'avevo scelta io quella solitudine. Me la meritavo tutta, come si merita un premio, una promozione... come si merita una punizione... Se sei troppo complicata, se sei troppo strana, che cosa pretendi? O ti adatti, ti pieghi, ti deformi o stai in compagnia della tua misera ombra. 

E il veleno che le giornate avevano nella coda ha invaso le notti, le notti senza sonno durante le quali ho dovuto ammettere di desiderare qualcuno con cui parlare, ho dovuto ammettere che quella solitudine in fondo non l'avevo scelta, ho dovuto ammettere di essere completa, sì, ma di volere qualcuno con cui ridere e piangere durante quelle lunghe notti... per espandermi e non per completarmi, per raddoppiare e non per compensare... Per capirlo ho dovuto guardare molti muri, molti soffitti, finestre e porte chiuse, cortili recintati e triangoli di cielo lontani. Ho dovuto reggere i silenzi di lune velate e la crudeltà di stelle nascoste dietro le chiome degli alberi.
Volevo la libertà, non la solitudine, ma per ottenere la prima sono stata costretta a passare per la seconda.
Non so quanto ancora durerà l'effetto di questo veleno, non so se mi ucciderà o troverò prima l'antidoto, ma almeno adesso so che sono dove non vorrei essere e senza questa consapevolezza nessun passo sarebbe possibile.
So che voglio raddoppiare, triplicare, centuplicare, perché ci sono forze che bisogna lasciare libere, energie che hanno bisogno di unirsi ad altre energie per crescere e splendere e farsi mondo...
"Il mondo è tutto ciò che accade" scriveva Wittgenstein, e io, che sono stanca di cadere, vorrei iniziare finalmente ad accadere. 




mercoledì 2 settembre 2020

Metamorfosi

Quando la giovane donna si trovò di fronte all'ultimo tratto di strada, si fermò un istante prima di proseguire. L’ingresso della caverna aveva un aspetto tutt'altro che rassicurante. I suoi passi successivi avrebbero calpestato un terreno arido e duro, dove nessun tipo di erba avrebbe mai osato crescere.
Si fece coraggio e percorse velocemente quel sentiero, iniziando a sentire nell'aria il nauseante odore dello zolfo.
Entrò senza dare ascolto alla paura, con la consapevolezza che, per trovare le tre vecchie, avrebbe dovuto calpestare il freddo terreno dell’Ade. Le avrebbe sentite cantare a un certo punto e il canto l’avrebbe guidata fino a loro.
Una volta dentro si rese conto con stupore che una pallida luce lunare rendeva visibile il percorso. Che la luna lì dentro non sarebbe mai potuta entrare era un problema che in quel momento non la riguardava.
Camminò, si perse più volte, anche se, a voler essere precisi, non può perdersi chi non sa dove andare. Solo dopo aver vagato per ore le giunse finalmente all'orecchio un canto, interrotto, di tanto in tanto, da uno scambio concitato di battute.
La giovane donna capì di essere vicina alle Moire e prese a seguirne le voci.
Alla fine di una stretta galleria si apriva un ampio antro, nel quale lavoravano con solerzia tre vecchie donne. Erano l’unica cosa che si muovesse lì dentro, tutto il resto sembrava congelato, fermo come l’eternità.
Quando le vecchie videro la giovane donna alzarono lo sguardo senza smettere di lavorare. Sul volto di tutte e tre si dipinse l’indignazione. La più vecchia poi, quella con le forbici in mano, guardò il suo strumento e disse con astio: «Non ho deciso io che tu fossi qui in questo momento, umana.»
Aggiunse la sorella, quella che girava il fuso: «Neanche io ho stabilito questa tua discesa né ricordo di aver intrecciato il tuo destino. Chi sei o chi ti manda?»
La giovane non rispose subito, prima guardò la terza sorella, Cloto, poi parlò indicandola.
«Quando lei mi ha dato la vita, credo abbia evitato per qualche ragione di consegnare a voi quel filo. Per una volta Cloto ha disobbedito e io sono nata da quella disobbedienza. Non chiedetemi come abbia potuto farlo, ma l’ha fatto e adesso sono qui.»
Colta in fallo, la più giovane delle tre Moire abbassò il capo e si giustificò con le sorelle: «Non ho disobbedito, al contrario! È stata Ananke a ordinarmi di farlo e sapete quanto me che alla Necessità non è possibile opporsi.»
A quel punto lo sguardo delle vecchie si puntò interrogativo sulla donna, discesa nell'Ade per metterle di fronte a qualcosa di incomprensibile.
«Se non ho intrecciato io i fili della tua vita, che cosa sei destinata a fare?» domandò Lachesi.
«E che cosa dovrò recidere io quando sarà l’ora, per te, di scendere definitivamente nell'Ade?» chiese Atropo.
La giovane le guardò e rispose: «Avrei voluto farvi le stesse domande, ma visto che ne sapete meno di me, vi dirò che cosa è stata la mia vita fino a questo momento.»
Le Moire si fecero attente, loro, antiche come il mondo, stavano per apprendere una lezione da una giovane venuta dal mondo dei mortali.
«Ho filato io stessa la mia esistenza fino a oggi e talvolta Ananke ha imposto anche a me qualcosa. Mi ha messo in mano delle forbici come le tue, Atropo,» disse rivolta alla più anziana «e ho dovuto tagliare il filo. Ma una volta reciso, al contrario di quanto avviene quando sei tu a tagliare, mi è stata data anche la possibilità di continuare a filare e a intrecciare. Non ho fatto altro che annodare il filo nuovo al vecchio non immaginate neanche quante volte!»
Le tre Moire erano perplesse. Quello che la giovane donna stava dicendo andava contro ogni legge umana e divina, eppure non potevano che crederci, sapevano che stava dicendo il vero. Ottenuta la vita da Cloto, aveva fatto quello che in genere facevano Lachesi e Atropo. Moriva eppure continuava a vivere, legando la nuova vita alla vecchia, ricominciando il lavoro ogni volta, ma saldamente legata al filo reciso.
Le tre vecchie erano senza parole, come la giovane che, discesa nel regno dei morti per comprendere se stessa, non era riuscita a ottenere risposte neppure dalle figlie di Ananke, la Necessità. Forse solo la grande madre in persona, che aveva ordinato a Cloto di non passare il filo nelle mani delle sorelle, avrebbe potuto fare chiarezza.
All'improvviso le Moire ripresero a cantare e cantando invocarono proprio la madre, che comparve agli occhi delle quattro donne in tutta la sua imponenza.
L’aria immobile dell’antro riprese vita quando la divinità iniziò a parlare, dopo aver lanciato un’occhiata compiaciuta alla giovane donna.
«So bene perché sei qui, cerchi risposte al tuo essere al mondo. Ti darò quello che cerchi. Quel tuo restare in vita dopo ogni morte è ciò che fa di te quello che sei. Il tuo nome, figlia, è Metamorfosi e il tuo destino è quello di non averne uno, di dissolvere la forma perché non ristagni e diventi ogni volta qualcosa di nuovo, andando oltre se stessa. Per fare ciò avevi bisogno delle caratteristiche delle più terribili tra le tue sorelle: la libertà di Lachesi nel filare e il rigore di Atropo nel recidere. Sei la più bella e la più spietata tra le mie figlie, perché non ti fermi davanti a nulla. Sei legge per i mortali, temuta e amata a seconda di quanto ti abbiano compresa. In quanto figlia mia, sei inesorabile. In quanto figlia del Tempo, puoi essere lenta o veloce, ma nessuno potrà mai evitarti.»
La giovane donna restò in silenzio, come le sue sorelle maggiori, poi domandò: «Dovrò restare anch'io nell'Ade?»
La madre fece un cenno di diniego: «Dovrai andare per il mondo, come hai sempre fatto.»
Subito dopo Ananke sparì e l’atmosfera dell’antro tornò quella di prima. Le Moire ripresero il proprio lavoro. Quello che aveva detto la Necessità, in fondo, potevano solo accettarlo; c’era poco da fare, tanto valeva riprendere la propria funzione.
Metamorfosi riuscì a scorgere, in quell'aria tornata fredda, una minuscola farfalla. Le sembrò incredibile quel suo battito d’ali nel regno dei morti. Le si fece sempre più vicina, fino a posarsi sulla sua spalla sinistra. La giovane chiuse allora gli occhi per un istante, un solo istante, e quando li riaprì era fuori, nel punto esatto in cui aveva esitato prima di entrare.
Guardò un’ultima volta l’entrata dell’Ade, poi riprese il suo cammino tra i mortali. Sulla sua spalla un piccolo bruco; l’indomani sarebbe stato un duro bozzolo, poi di nuovo farfalla.





martedì 17 dicembre 2019

Luce


Avete mai fatto caso a quanto la luce che entra nelle vostre case possa condizionare l’umore? Se non c’è la luce giusta io, ad esempio, non riesco a cominciare bene la giornata. Sono opere d’arte le giornate, sapete? Lasciate stare la vita intera, quella non si sa mai se sarà un’opera riuscita così come la vorreste… Concentratevi sulla giornata, sulla singolarità irripetibile che sono quelle ventiquattro ore.
Ecco, due giri di lancette che potete decorare come meglio credete. A ogni battito di secondo potreste piantare un albero, ci pensate? Potreste anche farvi venire l’idea che vi cambierà la vita. Potreste concepire un figlio, adottare un cane, tenere in vita l’uccellino che è caduto nel vostro cortile. Potreste persino morire! Ci pensate?
Forse no…
So a cosa state pensando, invece, in questo momento. Se possiamo, perché non lo facciamo? Che cosa tiene incollati noi umani all'ipotesi e ci impedisce di far traboccare le giornate, di far saltare in aria le lancette?
Siamo senza sangue, è questa la verità. Siamo fili d’erba che alzano la testa timidamente e solo d’estate, non siamo capaci di estendere radici verso il basso e rami verso il cielo, di affrontare gli inverni a testa alta. Non più almeno…
Dovremmo smetterla di essere morti che camminano. Il nostro vivere in caverne ben arredate ci porterà all'estinzione, perché abbiamo dimenticato come si fa a digerire la luce.
Bella evoluzione: da scimmie arrampicatrici a scimmie ipogee. In fondo era meglio quando vivevamo sugli alberi, eravamo a un piano superiore. Almeno si interagiva e non si restava seppelliti da vivi in loculi dai nomi ammalianti: monolocale, bilocale, loft, attico… Manca sempre il cielo nudo sulla testa.
Manca sempre il tempo per fare tutto, concordate? Come se consumassimo chilometri di esistenza ogni giorno. Eppure a fine giornata, allo scadere di quelle ventiquattro ore, siamo al punto di partenza. Sì, è proprio un giro: quando le lancette tornano nella posizione iniziale, dopo due corse, tutto si cancella. Che miracolo! O forse dovrei definirlo maleficio, incantesimo di un dio divoratore di vita. Perché è così, ci sembra soltanto di vivere mentre corriamo a piedi o in macchina, mentre ce la prendiamo con il tizio che ha saltato la fila al supermercato facendoci perdere tempo, appunto, mentre consumiamo in una infernale ruota le nostre maledette ventiquattro ore. Neanche scimmie più, ma stupidi criceti inebetiti dalle sbarre che li circondano: ecco cosa siamo!
Eppure la volete sapere una cosa ancora più ridicola? Io ce l’avevo un criceto una volta, una femmine per la precisione. Ha girato a vuoto nella sua ruota anche lei, ma un giorno si è accorta che la gabbia aveva una porta, ben mimetizzata tra le sbarre. Dal momento in cui è stata consapevole dell’esistenza di quella porta, ha lasciato perdere la ruota e ha iniziato a dedicarsi a quella. Che ci crediate o no, nel giro di poco tempo, ha trovato il modo di sollevare quella porta a ghigliottina.
E ora ditemi: chi è il sorcio in gabbia?
Noi di porte ne vediamo ogni giorno, stanno lì, a ogni angolo di strada, ma ci passiamo sopra, facciamo finta di non vederle. Ogni cosa bella è una porta verso la vita, ma forse preferiamo la comodità delle nostre gabbie. Ne ha fatta di fatica il mio criceto per evadere! Noi umani non siamo disposti a faticare.
Prestare orecchio al fiore che morirà domani, all'ombra che sa che dovrà dileguarsi per far spazio al mezzogiorno non è facile, lo capisco… La bellezza della mortalità spaventa, ma è l’unica via che possa portare a riempire quelle ventiquattro ore. Riempirle davvero!
La routine, le giornate sempre uguali hanno un vantaggio: l’illusione dell’eternità. Ripetete, ripetete, ripetete… e alla fine una sorta di illusione ottica delle idee vi fa credere che la copia avrà sempre un’altra copia, all'infinito. Ma non funziona così. Il criceto muore nella ruota alla fine, mentre miliardi di altre ruote continuano a girare.
Attraversare la porta non vuol dire non morire, vuol dire sapere che si dovrà morire e lasciare che questa consapevolezza illumini tutto. Quando la morte illumina, quelle ventiquattro ore cambiano i colori della stanza, cambia il vostro volto nello specchio e i volti della gente che vi circonda.
È un dolore acuto, una lama sottile infilata sotto pelle, che non vi abbandonerà più. Ma il dolore vi sveglia, vi rinvigorisce i sensi e finalmente vi fa lasciare la vostra angusta tomba ben arredata, nella quale non sopporterete più di stare prima del tempo.
Diventerete avidi di sole a quel punto, accarezzerete la terra affondando le dita nell'erba umida del mattino, per farci pace prima di tornare a essere parte di essa.

venerdì 22 novembre 2019

Cerco di separare il giorno dalla notte


Le guarigioni sono troppo lunghe… Individuato il problema, rimosso il problema, immagini che di lì a poco potrai riprendere a pieno ritmo la vita di prima, e invece ti ritrovi ad affrontare un corpo che non ne vuol sapere di rimettersi in moto alla velocità precedente. Ti guardi allo specchio e ti dici che in fondo sembra non sia successo niente, che non c’è motivo di star lì a rimuginare…e ti dimentichi, nel frattempo, che sei una che ci ha messo trent'anni per fare il primo vero respiro… Anzi, forse ancora lo deve fare davvero! E, nonostante spray e creme varie, provi ad annusare qua e là, sentendoti molto animale… le lenzuola e i vestiti lavati, lo shampoo, le care vecchie candele alla vaniglia, il caffè... Cavolo se è forte l’odore del caffè, vince il vago sentore di mandorle della pomata che devi aspirare neanche fossi una cocainomane! Ti chiedi di cosa profumino davvero le persone che hai amato, che ami…
È tutto così lento… Ritornare piano piano a fare le cose di prima, sebbene la tua assenza sia stata di pochi giorni. Ma ormai lo sai bene che il tempo si contrae e decontrae a seconda del modo in cui lo percepisci, delle cose che fai o non fai: puoi arrivare a fine giornata con la sensazione di esserti svegliata il mese scorso. Poi ci sono eventi che ti scagliano fuori dal tempo, e lì non ci capisci più nulla quando ti risvegli. Mi chiedo, ad esempio, dove sono stata dalle 9:00 alle 12:00 del 6 novembre scorso… Credo nello stesso luogo in cui vado mentre dormo, ma non se sono certa. Lì di sicuro non c’era tempo e ha continuato a non esserci per i giorni successivi… Notte e giorno si sono capovolti, mescolati, fusi e scinderli di nuovo non è stato facile. Cerco ancora adesso di separare il giorno dalla notte, ma la diga che ho costruito è piena di buchi. Bisogna ripararla, perché questi frammenti di notte che mi assalgono in pieno giorno sono pericolosi. L’assenza di tempo, sperimentata per pochissimo, sembra aver aperto un varco e devo stare attenta a cosa lascio passare…

sabato 9 novembre 2019

Nasci ogni volta che torni dal dolore


L’esperienza del dolore fisico è quanto di più autentico si possa vivere, ti incolla al qui e ora senza che tu abbia la possibilità di fuggire. Non puoi pensare a nient’altro. Diventi il tuo dolore, ti identifichi completamente con esso, tirando calci e pugni contro tutto quello che viene dall'esterno e cerca di tenderti la mano. Niente come il dolore ti dice con chiarezza che non abiti un corpo, sei proprio quel corpo. Niente ti scolpisce così come fa una ferita. Niente ti restituisce meglio a una dimensione animale e istintiva. Se il piacere ti espande, facendoti perdere i confini, il dolore ti “concentra”: sei un punto di materia in agonia. “Non puoi ignorarmi” ti dice il dolore. Quando torni da lì è come se dovessi reintegrare tutta la realtà in te, poco alla volta, riassorbirla un pezzetto al giorno. Ed è lì che ti rendi conto che non è proprio più come prima. Ti sei vista punto, riscoprirti retta, piano, poi spazio ha la forza di una nuova nascita. Nasci ogni volta che torni dal dolore; apri gli occhi e vedi, ascolti le voci intorno, ti muovi e tocchi ciò che ti circonda, senti i sapori e gli odori. Ecco, per ora mi manca quest’ultimo passo…

lunedì 4 novembre 2019

Oggi è una giornata di vento: raccolgo le forze per non infrangermi

Oggi è una giornata di vento, una di quelle in cui la natura sembra urlare, sembra voler dare una scossa al mondo intero. Oggi sento tutto di più, quasi colta da una forma di ipersensibilità, che mi porta a essere lenta, a soffermarmi.
È incredibile come un distacco momentaneo e forzato dall'abitudine possa incidere sul modo di sentire e di pensare. Non credo capiti solo a me, anche se mi rendo conto che una certa impostazione caratteriale mi porti ad amplificare ogni stimolo.
Domani mi ricovero in ospedale; niente di tragico, ma la cosa mi ha dato uno stop abbastanza perentorio. E io sono abituata a correre, sono drogata di “fare”. 
Sono anni che mi dico: “Devo prendermi una pausa, devo fare una vacanza”. Ho rimandato di mese in mese, di anno in anno… Sapevo, in fondo, che mi sarei fermata solo per dovere.
E adesso sto qui a pensare, a rimuginare sui giorni che mi aspettano, sulle sensazioni non troppo piacevoli che sono dietro l’angolo, visto che non mi illudo che un’operazione, anche se di routine, mi faccia fare i salti di gioia il giorno successivo. Banalmente mi guardo anche la faccia e mi chiedo se dopo vedrò qualcosa di diverso, anche se impercettibilmente diverso. Mi sento Gengè Moscarda, c’è da ammetterlo.
Sento anche l’irrazionale impulso di dire parole mai dette… La mia mente si incaglia in quelle cose che avverte come sospese. E ce ne sono più di quante immaginassi fino a qualche ora fa, perché in questo momento ho come acceso i riflettori su zone in ombra più o meno estese: potere dei piccoli eventi che infrangono il magico ripetersi del tempo!
Oggi sono fragile, diciamolo pure; nei prossimi giorni lo sarò anche di più.
Raccolgo le forze per non infrangermi

venerdì 4 ottobre 2019

Ci sono cose che non si possono dire

Ci sono cose che non si possono dire.
Ci sono cose che non si possono dire perché le emozioni sono bombe e tu sei in un campo minato.
Ci sono cose che non si possono dire perché la verità a ogni costo è un valore assoluto solo nella tua stupida testa corrosa dalla filosofia.
Ci sono cose che non si possono dire perché non si presenterà mai l’occasione propizia per non fare del male a nessuno.
Ci sono cose che non si possono dire perché i segreti hanno sempre troppi protagonisti.
Ci sono cose che non si possono dire perché se dicessi semplicemente “me ne frego” non saresti tu.
Ci sono cose che non si possono dire perché l’amore è una strada dritta e soleggiata solo nei film.
Ci sono cose che non si possono dire perché altrimenti, poi, dovresti dire anche altre cose, e altre cose, e altre cose, per far tornare i conti.
Ci sono cose che non si possono dire perché hanno diritto a esistere solamente nei sogni.
Ci sono cose che non si possono dire perché le vite degli altri devono continuare ad andare così.
Ci sono cose che non si possono dire perché senti di non avere il diritto di turbare un’anima che ha già sofferto.
Ci sono cose che non si possono dire perché è meglio che esploda un cuore soltanto e gli altri continuino a battere.



mercoledì 18 settembre 2019

Nella vita bisogna far rumore: breve autoanalisi


Nella vita bisogna far rumore, è necessario farsi sentire, urlare invece di parlare. I sussurri sono coperti dai pensieri altrui. I sussurri tutti fingono di non averli sentiti. Si può vivere in due modi: in punta di piedi o con passo pesante. Mio malgrado, ho sempre camminato a passi felpati.
Oggi mi sono ritrovata tra le mani una lettera, risalente a moltissimi anni fa, che mi ha mostrato in maniera impietosa un filo ininterrotto che attraversa la mia vita.
“Di te non mi ero proprio accorta” mi scriveva la persona con un inchiostro blu traballante, tra un complimento e l’altro.
Ed ecco la costante…
Un’altra persona, anni più tardi, mi avrebbe detto: “Fai troppo poco rumore nella mia vita”.
Mi fermo, perché a rifletterci mi vengono in mente tante altre frasi che sono diverse declinazioni dello stesso concetto, che mi appare adesso come un inconsapevole (a volte!) pugno nello stomaco da parte di tanti che avrebbero voluto in quel modo sottolineare un valore.
Non far rumore, però, è una virtù difettosa. Diventi parte dell’arredamento senza accorgertene e chi ti sta intorno, senza volerti fare del male, ti tratta come tale. Gli oggetti non urlano, non piangono, non soffrono, semplicemente “stanno”. Le persone si rendono conto della loro assenza soltanto quando non assolvono più alla funzione alla quale erano deputati. Arrivate a quel punto, decidono o di sostituire l’oggetto o di riprenderselo a tutti i costi, se funzionava proprio bene.
“Ho bisogno di te” è la peggior dichiarazione che si possa fare a un altro essere umano, è come dire “Ho bisogno che tu ti rimetta sulla scrivania immobile e mi faccia luce come hai fatto fino all'altro ieri” oppure “È necessario che tu stia all'angolo vicino alla finestra perché io possa sedermi su di te e tirare un sospiro di sollievo quando ne sento il bisogno”.
È una vita di attese quella di chi non fa rumore.
Non penso si possa condannare qualcuno per il “non vedere”, “non accorgersi”, in fondo è una legge di natura: siamo catturati da ciò che è più appariscente. E d'altronde anche il silenzio, per quanto vi possa essere una predisposizione caratteriale, è una scelta.

martedì 27 agosto 2019

Case, buchi e catacombe

Stasera ho proprio voglia di raccontare fatterelli di poco conto, di quelli che ero solita narrare su questo blog quando ero una giovane e spensierata studentessa di Filosofia, con il naso rivolto perennemente al cielo in pieno stile "Talete nel pozzo".
Ebbene, il titolo di questa storia potrebbe essere "Gnothi seauton...e possibilmente pure le mura dove abita 'sto seauton!"... perché, dopo due anni di insediamento in questa oscura casetta in quel di Fisciano, ancora faccio scoperte inquietanti. 
Passino i due camini murati, che nelle giornate di vento producono sinistri rumori, passi il forno da fornaio, anch'esso murato e non meno sibilante, ignoriamo anche i tubi a vista, tappati con carta, la cui funzione mi è ignota (spero sempre non abbiano a che fare con le fogne), l'intercapedine nel muro scoperta in seguito alla caduta di pezzi di intonaco e quello che ho ribattezzato il "buco del diavolo" (in realtà una vecchia legnaia sigillata)... Ma il mistero del rientro dietro l'armadio mi ha gettata nel panico! 
Torniamo a qualche settimana fa, inizi di agosto; dovevo partire per trascorrere una decina di giorni dai miei. Sistemo la casa, il gatto, faccio le valigie... Nella concitazione, tiro con troppa forza l'ultimo cassetto dell'armadio e mi rendo conto che alcuni indumenti sono finiti dietro al cassetto stesso. Convinta di averlo già fatto in passato, estraggo tutto il cassetto e tra le mani mi ritrovo, qualche istante dopo, un reggiseno... Niente di strano nella casa di una ragazza, direte! Lo guardo: azzurro a pois bianchi, merletti vari, decisamente qualche misura in più della mia... No, proprio non è mio! Penso alle altre donne che eventualmente ho ospitato a casa e... No! Il reggiseno misterioso non può essere loro! Lancio un'altra occhiata e mi ritrovo davanti la maglietta di un pigiama, anch'essa femminile... Pure quella decisamente non è mia!
Lo so, sembra il preludio di una sorta di film erotico, ma vi assicuro che il genere adeguato è piuttosto l'horror.
Mi decido a sbirciare con una torcia nello spazio prima occupato dal cassetto e mi rendo conto che manca il muro dietro l'armadio... Vedo solo un buco del quale non scorgo la fine... Mi affretto a rimettere a posto il cassetto, tra un brivido e un'imprecazione, finisco di fare i bagagli e parto.
Oggi, oltre venti giorni dopo, mi sono fatta coraggio e mi sono decisa a spostare l'armadio, poco alla volta, ben attenta a non rompere sigilli, scoperchiare vasi di Pandora, evocare involontariamente demoni e fantasmi... Coperto da una (inutile) tendina, ho scoperto un rientro nel muro bello profondo, una sorta di nicchia con delle mensole in muratura, che mi ha ricordato da subito i fori scavati nelle pareti delle catacombe... sì, quelli dove piazzavano i morti! Nonostante tutto, ho tirato un sospiro di sollievo: una porta o una finestra sarebbero state decisamente peggio. Metti che inavvertitamente mi trovavo a Narnia... chi li avvisava amici e parenti!?
Ho atteso che la gatta esplorasse la catacomba domestica, poi ho rimesso l'armadio al suo posto e ho ripreso il lavoro. Dormirò di certo sonni più tranquilli...