giovedì 31 dicembre 2020

Auguri a tutti i bambini che avete dimenticato

Negli ultimi dodici mesi ho perso cose e persone e adesso mi avvio così, spoglia e leggera, verso il prossimo anno.
Ho perso la capacità di vedere il futuro e la forza di costruirlo. Posso solo accoglierlo.
Quest'anno ho tolto, tagliato, levigato, fino a quando non è rimasto nulla. Pensavo restasse l'essenziale, invece non è rimasto nulla.
Ho dubitato, tanto, soprattutto di me stessa.
Ho scritto molto quest'anno: note ovunque, prose e poesie, a volte singole parole che mi riempivano la mente come cetacei in un acquario da salotto.
Soprattutto, però, ho riscritto. Ho riscritto la mia storia, ho riscritto me stessa. Per risemantizzare tutto ho dovuto salvare una bambina che detestavo, che non riuscivo a guardare. Stava lì piena di irritante ingenuità e attendeva che la portassi via. 
E negli anni ho provato a farlo, tante volte, ma era più forte di me: mi ispirava antipatia. Era goffa e sgraziata. Non parlava e, se le chiedevi l'età, te la indicava con le dita.
Poi finalmente è successo quello che non mi aspettavo. Me la sono vista davanti a fissare le caramelle colorate di una bancarella, come una qualunque bambina.
È stato allora che il suo sguardo non mi ha suscitato più alcuna avversione, ma solo una lieve tenerezza. 
Quella bambina è l'unica "conquista" che mi porterò nel 2021. Le dovrò medicare i graffi e mi toccherà recuperarla da sotto il letto quando ci si nasconderà. So che lo farà. Ci vuole pazienza. Abbiamo tanta strada ancora da fare.
Gli auguri quest'anno li lascio fare a lei, anche se è terribilmente timida.
Auguri a tutti i bambini che avete dimenticato.



lunedì 7 dicembre 2020

Accadere

Il 2020 è la coda avvelenata di un lungo periodo difficile, come avvelenata è stata la coda di molte giornate che hanno composto gli ultimi anni. Giorni che si sono susseguiti uguali, come tanti mattoni compatti, solidi, inesorabili nel loro intento di comporre un muro alto e senza crepe. Una torre di sofferenza costruita sul mio corpo, che mi ha piegata sera dopo sera.

La coda delle giornate era avvelenata... Sì, perché inevitabilmente, chiusa la porta di casa, qualunque cosa avessi fatto nelle ore precedenti, mi sono ritrovata sola. Sola. SOLA. E mi sono chiesta se l'avevo effettivamente scelta quella condizione. Certe sere mi sono detta di sì, me lo sono detto quasi vedendomi dall'esterno, mentre fissavo il soffitto con la musica nelle orecchie. Me lo sono detto con la testa tra le ginocchia, dopo aver mollato a metà un lavoro che dovevo assolutamente finire. Me lo sono detto seduta a terra, mentre desideravo con tutte le mie forze di sparire senza lasciare alcun ricordo. E più ero sola più desideravo di esserlo, perché l'avevo scelta io quella solitudine. Me la meritavo tutta, come si merita un premio, una promozione... come si merita una punizione... Se sei troppo complicata, se sei troppo strana, che cosa pretendi? O ti adatti, ti pieghi, ti deformi o stai in compagnia della tua misera ombra. 

E il veleno che le giornate avevano nella coda ha invaso le notti, le notti senza sonno durante le quali ho dovuto ammettere di desiderare qualcuno con cui parlare, ho dovuto ammettere che quella solitudine in fondo non l'avevo scelta, ho dovuto ammettere di essere completa, sì, ma di volere qualcuno con cui ridere e piangere durante quelle lunghe notti... per espandermi e non per completarmi, per raddoppiare e non per compensare... Per capirlo ho dovuto guardare molti muri, molti soffitti, finestre e porte chiuse, cortili recintati e triangoli di cielo lontani. Ho dovuto reggere i silenzi di lune velate e la crudeltà di stelle nascoste dietro le chiome degli alberi.
Volevo la libertà, non la solitudine, ma per ottenere la prima sono stata costretta a passare per la seconda.
Non so quanto ancora durerà l'effetto di questo veleno, non so se mi ucciderà o troverò prima l'antidoto, ma almeno adesso so che sono dove non vorrei essere e senza questa consapevolezza nessun passo sarebbe possibile.
So che voglio raddoppiare, triplicare, centuplicare, perché ci sono forze che bisogna lasciare libere, energie che hanno bisogno di unirsi ad altre energie per crescere e splendere e farsi mondo...
"Il mondo è tutto ciò che accade" scriveva Wittgenstein, e io, che sono stanca di cadere, vorrei iniziare finalmente ad accadere. 




mercoledì 2 settembre 2020

Metamorfosi

Quando la giovane donna si trovò di fronte all'ultimo tratto di strada, si fermò un istante prima di proseguire. L’ingresso della caverna aveva un aspetto tutt'altro che rassicurante. I suoi passi successivi avrebbero calpestato un terreno arido e duro, dove nessun tipo di erba avrebbe mai osato crescere.
Si fece coraggio e percorse velocemente quel sentiero, iniziando a sentire nell'aria il nauseante odore dello zolfo.
Entrò senza dare ascolto alla paura, con la consapevolezza che, per trovare le tre vecchie, avrebbe dovuto calpestare il freddo terreno dell’Ade. Le avrebbe sentite cantare a un certo punto e il canto l’avrebbe guidata fino a loro.
Una volta dentro si rese conto con stupore che una pallida luce lunare rendeva visibile il percorso. Che la luna lì dentro non sarebbe mai potuta entrare era un problema che in quel momento non la riguardava.
Camminò, si perse più volte, anche se, a voler essere precisi, non può perdersi chi non sa dove andare. Solo dopo aver vagato per ore le giunse finalmente all'orecchio un canto, interrotto, di tanto in tanto, da uno scambio concitato di battute.
La giovane donna capì di essere vicina alle Moire e prese a seguirne le voci.
Alla fine di una stretta galleria si apriva un ampio antro, nel quale lavoravano con solerzia tre vecchie donne. Erano l’unica cosa che si muovesse lì dentro, tutto il resto sembrava congelato, fermo come l’eternità.
Quando le vecchie videro la giovane donna alzarono lo sguardo senza smettere di lavorare. Sul volto di tutte e tre si dipinse l’indignazione. La più vecchia poi, quella con le forbici in mano, guardò il suo strumento e disse con astio: «Non ho deciso io che tu fossi qui in questo momento, umana.»
Aggiunse la sorella, quella che girava il fuso: «Neanche io ho stabilito questa tua discesa né ricordo di aver intrecciato il tuo destino. Chi sei o chi ti manda?»
La giovane non rispose subito, prima guardò la terza sorella, Cloto, poi parlò indicandola.
«Quando lei mi ha dato la vita, credo abbia evitato per qualche ragione di consegnare a voi quel filo. Per una volta Cloto ha disobbedito e io sono nata da quella disobbedienza. Non chiedetemi come abbia potuto farlo, ma l’ha fatto e adesso sono qui.»
Colta in fallo, la più giovane delle tre Moire abbassò il capo e si giustificò con le sorelle: «Non ho disobbedito, al contrario! È stata Ananke a ordinarmi di farlo e sapete quanto me che alla Necessità non è possibile opporsi.»
A quel punto lo sguardo delle vecchie si puntò interrogativo sulla donna, discesa nell'Ade per metterle di fronte a qualcosa di incomprensibile.
«Se non ho intrecciato io i fili della tua vita, che cosa sei destinata a fare?» domandò Lachesi.
«E che cosa dovrò recidere io quando sarà l’ora, per te, di scendere definitivamente nell'Ade?» chiese Atropo.
La giovane le guardò e rispose: «Avrei voluto farvi le stesse domande, ma visto che ne sapete meno di me, vi dirò che cosa è stata la mia vita fino a questo momento.»
Le Moire si fecero attente, loro, antiche come il mondo, stavano per apprendere una lezione da una giovane venuta dal mondo dei mortali.
«Ho filato io stessa la mia esistenza fino a oggi e talvolta Ananke ha imposto anche a me qualcosa. Mi ha messo in mano delle forbici come le tue, Atropo,» disse rivolta alla più anziana «e ho dovuto tagliare il filo. Ma una volta reciso, al contrario di quanto avviene quando sei tu a tagliare, mi è stata data anche la possibilità di continuare a filare e a intrecciare. Non ho fatto altro che annodare il filo nuovo al vecchio non immaginate neanche quante volte!»
Le tre Moire erano perplesse. Quello che la giovane donna stava dicendo andava contro ogni legge umana e divina, eppure non potevano che crederci, sapevano che stava dicendo il vero. Ottenuta la vita da Cloto, aveva fatto quello che in genere facevano Lachesi e Atropo. Moriva eppure continuava a vivere, legando la nuova vita alla vecchia, ricominciando il lavoro ogni volta, ma saldamente legata al filo reciso.
Le tre vecchie erano senza parole, come la giovane che, discesa nel regno dei morti per comprendere se stessa, non era riuscita a ottenere risposte neppure dalle figlie di Ananke, la Necessità. Forse solo la grande madre in persona, che aveva ordinato a Cloto di non passare il filo nelle mani delle sorelle, avrebbe potuto fare chiarezza.
All'improvviso le Moire ripresero a cantare e cantando invocarono proprio la madre, che comparve agli occhi delle quattro donne in tutta la sua imponenza.
L’aria immobile dell’antro riprese vita quando la divinità iniziò a parlare, dopo aver lanciato un’occhiata compiaciuta alla giovane donna.
«So bene perché sei qui, cerchi risposte al tuo essere al mondo. Ti darò quello che cerchi. Quel tuo restare in vita dopo ogni morte è ciò che fa di te quello che sei. Il tuo nome, figlia, è Metamorfosi e il tuo destino è quello di non averne uno, di dissolvere la forma perché non ristagni e diventi ogni volta qualcosa di nuovo, andando oltre se stessa. Per fare ciò avevi bisogno delle caratteristiche delle più terribili tra le tue sorelle: la libertà di Lachesi nel filare e il rigore di Atropo nel recidere. Sei la più bella e la più spietata tra le mie figlie, perché non ti fermi davanti a nulla. Sei legge per i mortali, temuta e amata a seconda di quanto ti abbiano compresa. In quanto figlia mia, sei inesorabile. In quanto figlia del Tempo, puoi essere lenta o veloce, ma nessuno potrà mai evitarti.»
La giovane donna restò in silenzio, come le sue sorelle maggiori, poi domandò: «Dovrò restare anch'io nell'Ade?»
La madre fece un cenno di diniego: «Dovrai andare per il mondo, come hai sempre fatto.»
Subito dopo Ananke sparì e l’atmosfera dell’antro tornò quella di prima. Le Moire ripresero il proprio lavoro. Quello che aveva detto la Necessità, in fondo, potevano solo accettarlo; c’era poco da fare, tanto valeva riprendere la propria funzione.
Metamorfosi riuscì a scorgere, in quell'aria tornata fredda, una minuscola farfalla. Le sembrò incredibile quel suo battito d’ali nel regno dei morti. Le si fece sempre più vicina, fino a posarsi sulla sua spalla sinistra. La giovane chiuse allora gli occhi per un istante, un solo istante, e quando li riaprì era fuori, nel punto esatto in cui aveva esitato prima di entrare.
Guardò un’ultima volta l’entrata dell’Ade, poi riprese il suo cammino tra i mortali. Sulla sua spalla un piccolo bruco; l’indomani sarebbe stato un duro bozzolo, poi di nuovo farfalla.