giovedì 23 maggio 2019

Quella lettera di Franz al vero Kafka


Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te”: per fornire una risposta a questo interrogativo Franz Kafka ridiscese, con la Lettera al padre, nell’abisso della propria infanzia e del suo senso di inadeguatezza

Era il 3 giugno del 1924 quando Franz Kafka morì all’età di quarant’anni; ne avrebbe compiuti quarantuno esattamente un mese dopo. Cinque anni prima, nel 1919, aveva scritto e chiuso in un cassetto quella celebre Lettera al padre che non sarebbe mai giunta tra le mani del temuto destinatario.           
Se ci si accosta alla nota epistola dopo aver letto capolavori kafkiani come Il Processo o Il Castello, è difficile non notare nel breve scritto autobiografico l’eco di temi magnificamente oggettivati in quelle opere: ci si rende conto che in Kafka l’esperienza soggettiva, il dolore vissuto sulla propria pelle, giunge ai picchi dell’universalità passando attraverso la penna. Il contatto diretto col dolore, purificato dai residui di soggettività, diventa conoscenza consapevole della condizione umana in generale.       
Sebbene del lavoro di un artista conti, per molti, principalmente il risultato finale, resta comunque particolarmente interessante scoprire i retroscena che sono alla base di opere di indiscutibile profondità e, nel caso di Kafka, anche di grande complessità.     
Un primo dato, che emerge chiaramente dalla Lettera al padre, è il seguente: lo scrittore praghese fu il singolare risultato di un incontro/scontro multiplo di personalità. Il primo di essi fu quello che gli diede la vita, tra le nature tanto differenti della madre, Julie Löwy, donna docile, sempre pronta a proteggere i figli ma mai a contrariare il marito, e di quel padre terribile, sempre pronto a minacciare e a rinfacciare
Nella Lettera Kafka si definisce, quasi con rammarico, “un Löwy con un certo fondo kafkiano che però non è mosso dalla volontà kafkiana di vita, di affari e di scoperta”. 
Fu, però, soprattutto dallo scontro del giovane Franz con Hermann, il vero Kafka, che emerse il ben noto artista, con tutte le sue insicurezze e le dichiarate debolezze.     
Un secondo dato, di importanza capitale, è la sorprendente ripartizione delle responsabilità tra Franz e il padre: “eravamo così diversi e, in questa diversità, così pericolosi l’uno per l’altro”. In alcun modo Kafka, nelle pagine della sua lettera, condanna completamente il genitore, sa che quello con il padre è stato un rapporto di tormento reciproco e non unidirezionale; lo scrittore avrebbe potuto spogliarsi di ogni colpa ma dall’inizio alla fine dell’opera, incredibilmente, è proprio la colpa a farla da padrona nel suo animo. Scivola in tutti gli scritti di Kafka questo senso di colpa congenito che sembra quasi essere nato con l’uomo, striscia ovunque anche tra le righe della Lettera al padre e l’unica motivazione plausibile pare essere il semplice e nudo essere così come si è.           
Tu eri per me la misura di tutte le cose”: dice Kafka del padre, ed è chiaro che, in alcun modo, egli, lo scrittore, pensa di poter mai anche solo avvicinarsi a quella misura, a confronto della quale tutto appare infimo, tutto sembra sbagliato. La figura di Hermann si riveste dei caratteri del tiranno, mai messo in discussione: ogni sua volontà, anche incoerente, è un ordine, ogni condanna da lui emessa ha la magica capacità di creare la colpa. “In certo qual modo si era puniti prima ancora di sapere che si era fatto qualcosa di male”; di fronte a queste parole non si può non pensare alla condanna di K. ne Il Processo, una condanna che conduce il protagonista alla morte senza che egli riesca mai a capire quale sia la colpa. E la stessa idea di condanna, inoppugnabile quanto misteriosa, si ha ne Il Castello, dove il luogo delle decisioni fatali si rivela irraggiungibile oltre che incomprensibile nella sua organizzazione.    
Se è vero che Franz Kafka si dimostra convinto del fatto che il fondo ultimo della sua personalità sarebbe stato lo stesso anche supponendo un comportamento meno duro da parte del padre, è però altrettanto innegabile che la vita dello scrittore fu, fino alla morte, un continuo ed estenuante processo, con Hermann Kafka come giudice e la sua arbitraria volontà come legge.
    

(Precedentemente pubblicato in https://www.zerottonove.it/)

lunedì 20 maggio 2019

Memento

Ci sono momenti in cui senti di aver dato troppo, ti guardi indietro e vedi pezzi di te regalati con imperdonabile disinteresse. Ti vedi in briciole negli altri e non sai esattamente come raccoglierti e tornare di nuovo una, perché per avere la forza di continuare la tua vita devi essere ben compatta. 
Inizi così a chinarti per prendere tutti quei brandelli, a volte ti tocca strapparli con la forza a chi cerca di tenerseli stretti... allora ti affidi alla rabbia.
C'è chi ha camminato al tuo fianco senza neanche rendersi conto del magma che si agitava sotto la sottile crosta della tua serenità. Cecità? Noncuranza? Paura di sapere? A un certo punto non ti importa più...
C'è chi, poi, brandendo una spada fatta di pensieri, ha infranto quello strato di superficie, puntando al centro di te. Raggiunto il cuore, però, quella spada ha continuato a usarla per devastare ogni cosa, così che alla fine sembrava che uno sciame di fameliche cavallette avesse divorato ogni tua singola sicurezza, ogni idea sulla quale avevi eretto la tua esistenza. Sei fuggita per anni, fino a quanto quella lama non l'hai impugnata tu, per recidere la testa del simulacro.
E ancora, c'è chi ha avuto tra le mani le chiavi di tutte le tue porte, ma le ha gettate via come avrebbe fatto con un ferro vecchio. "Non vali la pena": il messaggio sotteso a quel gesto. Quel mantra ti è risuonato dentro fino a piegarti, ma poi hai capito che, come un qualunque marinaio di Ulisse, dovevi tapparti le orecchie per non gettarti tra le braccia delle sirene.
Infine c'è chi ti ha invasa, perché non conosceva altro modo per entrare in contatto con te; ha cercato di forzare ogni porta, ma, una volta dentro, non ha avuto occhi per vedere né orecchie per ascoltare.
Mi dico, dunque, mentre mi rimetto insieme: calmati, siediti, aspetta. Aspetta chi sa vedere e ascoltare, chi vuole vedere e ascoltare, chi sa cosa farsene delle chiavi che ha in mano e, una volta dentro, non dà alle fiamme le tue stanze. Aspetta chi ha il passo leggero e non usa armi per infrangere le superfici, chi sa orientarsi nei tuoi sinuosi corridoi per arrivare a godersi i panorami dalle finestre. Sii spazio aperto solo in quel caso. 
Potresti aspettare invano, ma almeno sarai tutta intera. 

giovedì 2 maggio 2019

Insignificanti pensieri sull'Amore


L’amore è un gioco a due, in cui si fa la cosa più seria che possa esistere: costruire un mondo e mantenerlo in vita. Sei Atlante, ma condividi il peso di quella gigantesca creatura; se uno dovesse cedere, il mondo travolgerebbe l’altro. 
Non ci si improvvisa titani solitari nell'amore, Demiurghi bisogna esserlo in coppia.

L’amore è un bambino terribilmente serio che, giocando, costruisce la realtà. Perché sia se stesso, l’amore deve necessariamente generare, ma non figli, come qualcuno potrebbe banalmente pensare, deve dare la vita a una dimensione nuova.
Prima di qualsiasi altra cosa, gli amanti devono edificare la loro dimora mentale, il loro regno di pensieri, ai quali accedere mediante un linguaggio segreto fatto di simboli, allusioni, sfumature impercettibili per il resto dell’umanità.