domenica 29 novembre 2015

Amori kafkiani

Ho sempre avuto una forte attrazione per i diari e le lettere di grandi scrittori e artisti e, negli ultimi tempi, mi sono ritrovata a leggere le Lettere a Milena di Kafka prima e le Lettere a Theo di Van Gogh dopo (che tra una cosa e l’altra non riesco ancora a terminare). Dal momento che, come giustamente pensava qualche saggio greco, non si può dare un giudizio di qualcosa che non sia terminato, mi soffermo sulle lettere di Kafka. Confesso che ho deciso di leggerle perché mi sono innamorata prima di tutto di una singola frase: “E forse non è vero amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso”.  A qualcuno suonerà familiare per quel “che tu sia per me il coltello” di David Grossman, ma chi conosce un po’ Kafka saprà che la raccolta di epistole va ben oltre questa singola frase, che costituisce un po’ un’esca dal significato oscuro per chi non ha gli occhi adatti per osservare tutto l’insondabile buio di questo autore.
Partiamo dai fatti che costituiscono il presupposto di quest’opera. Milena Jesenskà era una giornalista e traduttrice, sposata ma a quanto pare non propriamente felice, Franz Kafka un uomo che aveva già un paio di relazioni fallite alle spalle e una cautela folle nell'accostarsi agli esseri umani. Una virgola spostata da Milena in una frase sembra determinare una lunga catena di reazioni in Franz, basta un giorno senza lettere per far presagire una catastrofe e l’uso di una parola piuttosto che un'altra fa la differenza tra una notte insonne e una accettabile.            
Attraverso ogni singola lettera chi legge riesce a fare un passo nella mente del grande scrittore e ad assaporare l’amaro gusto delle sue angosce; perché è qualcosa di quasi visibile quel fumo scuro che si addensa intorno al petto dell’autore e non lo abbandona mai, quel male che lo corrode e che sembra concretizzarsi davvero con la malattia polmonare che lo porterà alla morte. Quella di Kafka sembra paura di vivere, o meglio Kafka sa che non gli è possibile gestire la vita nei suoi aspetti più banali come fanno tutti perché il minimo dettaglio finisce per sopraffarlo. Non sembra esserci una netta distinzione tra l’ordinario e lo straordinario nella vita di questo che a molti doveva apparire come un personaggio ben strano, forse alla stessa Milena, con la differenza che lei non si lascia spaventare, non scappa, ma scava, “fruga” come dice lo stesso Franz (o Frank come lo chiamava lei), esattamente come un oggetto affilato che penetri dentro la carne per saggiarne la consistenza. Ma l’incanto dell’avvicinamento e della compenetrazione non può che durare poco e non soltanto per la condizione di donna sposata di Milena. Kafka si definisce una “bestia silvestre”, un animale selvatico insomma
che, per un attimo, ha avuto l’illusione di poter vivere come uomo, instaurando una relazione a dispetto della propria natura. Lo stop alla profonda corrispondenza, imposto dallo stesso Kafka, è l’epilogo annunciato di una relazione perita per la troppa intensità. E si resta inevitabilmente con un malinconico pugno di domande dopo l’ultima lettera, domande alle quali, probabilmente, neppure i diretti interessati saprebbero dare una risposta.