Il poeta ebreo Paul
Celan visse direttamente il dramma del genocidio e trascorse il resto della
vita, fino ai limiti della follia, a mettere in versi l’indicibile
Nel 1949 uno dei maggiori
filosofi del ‘900, Theodor W. Adorno, rese pubblica per la prima volta una tesi
che sarebbe passata alla storia, quella secondo la quale non ci può essere poesia dopo Auschwitz. Quali parole, infatti, utilizzare per descrivere l’orrore? L’Olocausto
mise il mondo di fronte all’impotenza e all’irrimediabile insufficienza del
dire.
Il poeta Paul Celan, originario di Czernowitz e, come Adorno, ebreo, invece, del dar voce a chi voce non aveva più fece un imperativo per tutta la durata della sua vita. Il confronto con la “sentenza” adorniana fu inevitabile, tuttavia la constatazione di ordine teorico dalla quale Celan partì diede basi solide ad ogni suo singolo verso.
Il poeta Paul Celan, originario di Czernowitz e, come Adorno, ebreo, invece, del dar voce a chi voce non aveva più fece un imperativo per tutta la durata della sua vita. Il confronto con la “sentenza” adorniana fu inevitabile, tuttavia la constatazione di ordine teorico dalla quale Celan partì diede basi solide ad ogni suo singolo verso.
Cantare l’indicibile richiedeva strumenti poetici nuovi, adeguati all’argomento,
e questi nuovi mezzi Paul Celan li cercò e li trovò in un generale
sovvertimento della concezione tradizionale del linguaggio: non si poteva
parlare di Auschwitz fintanto che si fosse tentato di farlo con il linguaggio
adoperato fin a quel momento. Il tedesco, la lingua adoperata dal poeta, la
lingua del “nemico”, doveva essere totalmente sovvertita per poter risultare
più efficace di quel silenzio che costituiva l’unica alternativa ad essa
E così nelle opere di Celan sparì prima di tutto la distinzione tra
significante e significato: la parola nelle sue liriche non è un segno per
qualcosa che sta al di là di essa, propriamente
la parola celaniana non dice, è.
La poesia è un luogo reale e comporla non vuol dire riprodurre una realtà, essa è creazione nel senso più radicale del termine, è produzione e non riproduzione di qualcosa di già esistente.
La poesia è un luogo reale e comporla non vuol dire riprodurre una realtà, essa è creazione nel senso più radicale del termine, è produzione e non riproduzione di qualcosa di già esistente.
Il critico di origine ungherese Peter Szondi, amico del poeta, così si
esprimeva in relazione a Stretto, una delle sue liriche più
famose: “il testo stesso rifiuta di porsi
al servizio della realtà, di continuare a giocare il ruolo che gli si assegna a
partire da Aristotele. La poesia cessa di essere mimesis, rappresentazione:
diventa realtà. Realtà poetica, beninteso, testo che non segue più una realtà,
ma si progetta esso stesso, si costituisce in realtà”.
E in linea con ciò, dunque, la landa della quale parla Celan all’inizio della stessa poesia è il testo stesso che smette di rappresentare per offrire al lettore una realtà mai vista precedentemente, sconosciuta perché mai stata prima.
E in linea con ciò, dunque, la landa della quale parla Celan all’inizio della stessa poesia è il testo stesso che smette di rappresentare per offrire al lettore una realtà mai vista precedentemente, sconosciuta perché mai stata prima.
La tragedia dell’Olocausto non
poteva avere voce, Celan provò a donargliene una, provò a trovare le parole per tutti coloro che non avevano avuto modo e
tempo di averne; con quelle stesse parole, poi, creò una realtà inedita,
perché, stando a quanto detto dello stesso Celan, “la realtà non è, la realtà va cercata e conquistata”. La poesia celaniana è il luogo in cui accade l’indicibile.
(Precedentemente pubblicato in https://www.zerottonove.it/)