mercoledì 31 dicembre 2014

Passaggio al 2015

È una pessima abitudine quella di tirare le somme a fine anno: ci dà la fantastica illusione che, dopo tutto, possiamo decidere di prendere le forbici e recidere i fili che ci legano al passato. Si tenta di ricominciare, si cerca il nuovo, questo si pensa di poter fare l’1 gennaio di ogni anno. Ci si smentisce il 2 riprendendo la solita vita.         
Quest’anno non auguro, a me come agli altri, una vita nuova, non auguro banali cambiamenti, do solo un consiglio, quello di metabolizzare l’anno passato, nel senso più proprio del termine. Molti anni sfuggono, hanno una pericolosa tendenza allo slittamento, come se fossero precipitati da un vertiginoso scivolo senza freni. Forse in quegli anni si fa tanto ma di quel tanto non resta altro che la vaga e lontana eco di fatiche e gioie. E quindi questa volta non me la sento proprio di saltare all'anno nuovo senza posare lo sguardo su quello che sta finendo, come a liquidare con un “felice anno nuovo” i 365 giorni che ciascuno ha alle spalle, o sulle spalle se si preferisce.           
Per assimilare per bene questo 2014, questo è quanto posso dire:
1 Amate il tempo che è stato, perché ormai fa parte di voi e, se l’anno che sta per arrivare è un punto interrogativo, quello che è passato lo avete tutto nella testa, oltre che in ogni singola fibra del vostro corpo, e nessuno può togliervelo. Dopo tutto non vedete il tempo ma il segno che vi ha lasciato addosso, fisicamente parlando. Riuscite ad amare le vostre ferite?
2 Amate ciò che siete diventati, perché è il presupposto per continuare a costruire la vostra vita. Se vi rendete conto che così non è, abbiate il coraggio di disfare: se cade una capanna fa meno danni di un palazzo e, soprattutto, si ricostruisce più in fretta. Riuscite ad amare i vostri fallimenti?
3 Amate, e magari dimostratelo anche, chi vi ha fatto stare bene, anche se a volte non è stato così, anche se non è più così: come ho già detto, il tempo che è stato fa parte di voi, e se qualcuno è stato capace di dare un’ora di gioia, a questo qualcuno va riconosciuto un merito. Riuscite ad amare le vostre cadute?           

Ed è proprio per ciò che dico in quest’ultimo punto che, per l’anno nuovo, più che augurare, sento di dover  ringraziare tutte quelle persone che hanno intrecciato il mio percorso con i loro, che mi hanno regalato ore di tranquillità con estrema spontaneità e momenti di bellezza senza saperlo.         
Grazie a tutti coloro che in questo 2014 si sono rivelati delle colonne di pietra in una silenziosa tempesta e che, di appiglio in appiglio, mi hanno permesso di andare avanti ed arrivare al nuovo anno.           

sabato 13 dicembre 2014

Resti di una giornata persa

A volte penso che il segreto, non della felicità, ma quanto meno della serenità, stia nell'accettare la semplice verità secondo la quale ci sono giorni in cui si dovrebbe rimanere a letto, non alzarsi, non uscire di casa, non fare assolutamente NULLA. Per tentare di aggiustare una cosa e fare un passo avanti spesso ci si rovina l'umore, quando non si fanno danni.
Ma siamo realistici, non credo sia possibile non mettere i piedi a terra la mattina: il mondo non si mette in pausa, dunque si può dire addio anche alla semplice possibilità di una serenità prolungata.

giovedì 27 novembre 2014

Breve dialogo tra l’Umano e il Tempo

UMANO: Perché stai lì a guardarmi? Non ti hanno mai detto che il tuo sguardo è insostenibile?
TEMPO: Ciò che per te è insostenibile non è il mio sguardo ma il tuo posato su di me. Non ti hanno mai detto che pochi sopravvivono all'incrocio dei propri occhi con i miei?
U: Da dove vieni?
T: Hai posto male la domanda. Io non vengo da nessuna parte, sono sempre dove sei tu.
U: Com'è possibile? Io ti vedo ora, ti vedo spesso, ma non posso dire di vederti sempre.
T: Questo cosa vuol dire secondo te?
U: Non lo so, dimmelo tu.
T: Quand'è che non mi vedi?
U: Quando faccio altro. Dove ti nascondi in quei momenti?
T: Io non mi nascondo mai.
U: Eppure non ti vedo.
T: Fai un grande sforzo per vedermi e non te ne accorgi. La tua condizione naturale è ben altra.
U: Cioè quale?
T: Essere me. Quando non mi vedi io sono te.

domenica 16 novembre 2014

Cumuli di anni

È incredibile la quantità di roba inutile che si è capaci di accumulare durante gli anni. Quando si è costretti a riordinare (perché prima o poi arriva quel fatidico momento!) si è anche costretti a scegliere, a selezionare le cose da tenere e quelle da buttare via. Confesso che qualche oggetto l'ho prima buttato nel cestino e poi sono tornata a riprenderlo ma, per il resto, mi sono maledetta per aver conservato, anni addietro, persino le carte dei cioccolatini di Dragon Ball. Un'altra vita per fortuna... 
Per adesso, se non altro, sono riuscita a dare alla mia stanza un aspetto da camera e non da deposito. Certo, se non si considerano i libri accatastati qua e là!
I cumuli di anni andati, però, non riuscirò mai a smaltirli.


mercoledì 5 novembre 2014

Il significato della parola incoerenza

Sono ormai abituata al fatto che, di tanto in tanto, qualche parola di uso comune mi si pari davanti e si mostri come la parte più evidente di qualcosa che deve essere guardato meglio. Mi capita anche con le persone: le "persone-punti interrogativi" sono la mia croce e la mia delizia.
Parliamo di INCOERENZA. 
"Mancanza di coesione e compattezza". 
Tanto basta.
La parola coerenza mi ha fatto sempre pensare a certi lavoretti che facevo alle scuole medie con la colla vinilica e dei pezzetti di plastica colorata; a volte creavo sulle tavolette di legno dei veri e propri "grumi" di colla e pezzetti colorati dai quali doveva emergere una qualche figura riconoscibile.
La coerenza dovrebbe essere quella figura che emerge nonostante tutto.
Eppure mi viene da pensare: ma, dopo tutto, sono comunque pezzi a sé stanti, la colla si vede.
La colla si vede ecco... La coerenza implica uno sforzo consapevole ma, alla fine, ciò che ne viene fuori è comunque un ammasso eterogeneo di roba più o meno presentabile.

Immagine: Susan Kaprov - Puzzle Matrix, #1 © 2004
30" x 40" Enamel on wood
One of a series of ten painted jigsaw puzzles

 


venerdì 24 ottobre 2014

Coincidenze

Tre autori su cui mi sono trovata a riflettere negli ultimi giorni:

1 - Sono ritornata su alcuni punti della mia tesi di laurea e quindi su Peter Szondi.
2 - Ho letto i pochi scritti in prosa del poeta Paul Celan.
3 - Ho iniziato a leggere qualcosa di Cesare Pavese: erano anni che mi riproponevo di procurarmi Il mestiere di vivere.

Ora, dopo giorni e giorni che passo dall'uno all'altro, mi rendo conto che le loro vite hanno una cosa in comune: a qualche bravo umanista il compito di capire cosa.

martedì 21 ottobre 2014

Buone novelle and me

Che ci sia forse da preoccuparsi quando si inizia ad avere il terrore di aprire la posta elettronica per paura di trovare qualche e-mail che peggiori irreparabilmente il proprio umore? 
E che dire del postino che causa attacchi di ansia acuti ogni volta che si presenta sotto casa col suo malloppo di scartoffie inquietanti?
E anche il telefono, non è che mi sembri un oggetto tanto rassicurante ultimamente. 
Si vede che le buone novelle sono state all'ordine del giorno ultimamente! Sul fatto, poi, che io abbia un rapporto complicato col concetto di "buone nuove" in generale, dopo tutto, non ci piove.

mercoledì 8 ottobre 2014


"E mi hai salvato tante volte
da qualche tipo di altra morte
andando dritta sulla verità"

venerdì 19 settembre 2014

Distacco

Non smette mai di stupirmi la semplicità con la quale, a volte, riesco a distaccarmi da oggetti ai quali in passato sono stata molto legata. Mi sono ritrovata di fronte ad una catasta di cappelli ammucchiati nell'armadio: ne facevo un uso spropositato si può dire! Mi aspettavo una fitta da qualche parte nel petto quando li ho buttati via ma non ho sentito nulla. Mi aspettavo troppo da me stessa... 
Life is beautiful: questo mi resta!

venerdì 12 settembre 2014

Esegesi del corpo

Questa sera mi concedo una cosa che ho evitato di fare per troppo tempo, almeno su questo blog: lasciar scorrere le parole così come vengono, senza sentire la necessità di dire qualcosa di significativo. La leggerezza e il disimpegno sono delle benedizioni a volte! Eppure la mia mente non riesce proprio a riversare nel solito torrente verbale tutta la sua agitazione, non come vorrei. In qualche modo mi trattengo e i sintomi di questa repressione contro me stessa diventano quasi fisici: la mente ti parla sempre attraverso il corpo e se vuoi imboccare direzioni che ti allontanino dalla catastrofe devi imparare ad essere un abile esegeta. Quella contro la propria fisicità, contro le proprie reazioni involontarie è una guerra persa in partenza. Quante volte mi sono tradita! In fondo so di volermi poco bene e le mie interpretazioni servono a poco; sì, perché non basta capirsi, non basta sapere con certezza che, quando ti costringi in abiti che non ti appartengono, il tuo corpo ti punisce togliendoti l'aria,devi anche avere il coraggio di strapparteli di dosso quegli abiti. Poi resti nuda, ma questa è un'altra storia.

sabato 30 agosto 2014

Quando il diavolo di Bulgakov arriva a Mosca

Da un romanzo che ha per titolo Il maestro e Margherita ci si aspetterebbe la più classica tra le storie d’amore, magari condita con una buona dose di destino avverso, e difficilmente si penserebbe che un gruppo di demoni, capeggiati da Satana in persona, siano di fatto i personaggi principali dell’opera. In verità hanno poco di puramente malvagio questi diavoli che giungono nella capitale russa sotto mentite spoglie, addirittura suscitano simpatia vista la vocazione da buffoni che mostrano in certi momenti; abbiamo Korovev, la figura lunga a quadri, Behemot, il gatto che cammina eretto sulle zampe posteriori, Azazello, il demone guercio e zannuto dai capelli rossi, Hella la strega perennemente nuda ed infine, Woland, Satana stesso travestito da esperto di magia nera.      
Per tutto il romanzo ho cercato di capire cosa mai avrebbe potuto indurre un così
singolare gruppo a scomodarsi per mettere piede sulla terra e proprio qui deve entrare sulla scena lui, il maestro, insieme alla sua amante Margherita. Questo stuolo di demoni che terrorizza o fa spiacevoli scherzi a chiunque, infatti, sembra invece rimettere a posto la triste storia di Margherita, che ha ormai perso da tempo le tracce del maestro. Quest’ultimo, sparito dopo le critiche negative mosse al suo romanzo su Ponzio Pilato, è stato in realtà ricoverato in una clinica psichiatrica; proprio questo romanzo del maestro sembra essere il filo dipanato da un capo all'altro del romanzo di Bulgakov, che si apre con una discussione sull'esistenza del diavolo, che, sotto le mentite spoglie di Woland, finisce col raccontare di aver assistito personalmente alla condanna di Cristo, e termina con l’assoluzione di Pilato, liberato dalla sua condanna eterna grazie alle parole del maestro. 
Certo il tutto fa supporre un qualche intervento divino, e questo strano Woland coi suoi demoni si presta stranamente a farsi strumento di quello che per tutto il romanzo viene definito un filosofo, quel Jehoshua che Pilato, anche se a malincuore, fa condannare. Il romanzo del maestro, bruciato e restituito al suo autore da Satana grazie all'intercessione di Margherita, può concludersi solo dopo l’assoluzione di Pilato oppure sarebbe meglio dire che la conclusione del romanzo assolve Pilato e questo evento scritto magicamente diventa evento reale.     
E su questo singolare intreccio tra bene e male valgano le parole dello stesso Woland a Levi Matteo, seguace di Jehoshua: «Sii tanto cortese da riflettere su questa domanda: che cosa sarebbe il tuo bene se non ci fosse il male, e come apparirebbe la terra se non ci fossero le ombre? Le ombre nascono dagli oggetti e dalle persone. Ecco l’ombra della mia spada. Ma ci sono le ombre degli alberi e degli esseri viventi. Non vorrai per caso sbucciare tutto il globo terrestre buttando via tutti gli alberi e tutto ciò che è vivo per godere nella tua fantasia della nuda luce? Sei uno sciocco».     
                                         


venerdì 1 agosto 2014

Il delitto è nel castigo?


Come costruisce (o, se si preferisce, de-costruisce) i personaggi e le situazioni Dostoevskij non lo fa nessuno e la lettura di Delitto e castigo non ha potuto che confermare questo mio giudizio.      
All'inizio del romanzo si ha di fronte un fatto, un delitto, ma quanto più si va avanti tanto più si fa avanti la domanda: che cos'è davvero un delitto? Perché in fondo è vero, come afferma il protagonista, che l’uomo considerato fuori dal comune di delitti atroci ne commette e, non di meno, quegli stessi atti spesso sono passati alla Storia come passi avanti per l’umanità. Forse che uccidere un solo uomo sia più grave che ucciderne a migliaia? Sembra davvero il paradosso del chicco di grano e del mucchio! Deriva in buona parte da questo il tormento del giovane Raskòl’nikov che uccide per capire se la sua personalità sia quella di un Napoleone oppure quella di un pidocchio qualunque. Siamo un passo al di là della morale, un gradino più su del bene e del male. La caduta o il trionfo dipendono dalla capacità di reggere le conseguenze delle proprie azioni: il delitto sembrerebbe delitto, per il giovane protagonista, solo nel momento in cui non è condotto fino alle sue ultime conseguenze, e anche allora resta un delitto più contro l’assassino e che contro la vittima. È un fascino sinistro ed incomprensibile quello esercitato dai grandi delitti sull'animo umano, un fascino che osa suggerire che l’unico peccato sta nel castigo.

martedì 8 luglio 2014

Io sono Eva


«Vuoi conoscere come Dio?»    

«Sì, lo voglio».  
A dir di sì non fu Adamo, ad osare l’impensabile fu Eva.               
Chissà cosa mai passava nella testa della madre mitica dell’umanità mentre allungava la mano per strappare a Dio un pezzo della sua essenza. O sarebbe meglio dire: chissà cosa passava per la testa di chi si è impegnato a descrivere quel gesto che, stando a certe convinzioni, doveva risiedere nell'onnisciente mente divina da sempre. La condanna fu inappellabile: al di là di tutti quegli altisonanti anatemi biblici, i figli di Eva avrebbero riprodotto il gesto della progenitrice per l’eternità. Ci volle una buona dose di disobbedienza femminile per raggiungere la coscienza della propria nudità e il conseguente desiderio di rimediarvi. Ci volle una buona dose di disobbedienza femminile perché il genere umano stabilisse che sarebbe stato di gran lunga meglio fare un bel salto nel vuoto con gli occhi aperti piuttosto che restare coi piedi ben saldi per terra e tuttavia con gli occhi perennemente serrati.         
            
Fonte immagine: http://www.deviantart.com/?offset=48&view_mode=2&order=5&q=favby%3Adavinci3835
      

lunedì 23 giugno 2014

Pessime annate

Ci sono anni che definire pessimi è poco: ti tolgono tutto, anche te stessa, e lasciano dietro di sé una scia di sfortunati eventi che si prolunga per gli anni successivi.
Nella mia vita fino ad ora il 2011 si conferma sul podio come il peggior anno che abbia mai vissuto: lo sto scontando ancora goccia dopo goccia, incazzatura dopo incazzatura!
In alternativa potrebbe essere un brutto periodo che si prolunga oltre ogni più buia prospettiva e lo dico ben consapevole di non essere affetta dalla cosiddetta sindrome di Paperino...


mercoledì 18 giugno 2014

Alla fine non si matura mai

Puntualmente, in questo periodo dell'anno, sono assalita da una specie di nostalgia. Causa? La maturità in corso... 
Se non erro, sei anni fa (sì, BEN SEI ANNI FA! Lo ripeto a me stessa...), era esattamente il 18 giugno che iniziai la mia di maturità. La ricordo con una certa "tenerezza" ma alla fine so bene che lo stress a cui sottoposi la mia povera testa fu tale da portarmi sull'orlo di una crisi di nervi. Se dovessi scegliere un'immagine che rappresenti me in quel periodo, sarebbe quella di una molla, una piccola molla pronta a reazioni esagerate ad ogni minimo stimolo! Per certi versi alcune condizioni d'animo si ripropongono: mi sembra di vivere mille volte la maturità, mille volte la laurea, mille volte i momenti d'ansia della mia vita. La cosa confortante è che la seconda volta già senti meno il colpo. La terza è quasi una carezza...

sabato 14 giugno 2014

Il significato di "crisi"

Κρίσις – εως : il separare, la scelta, il giudizio, l’esito, la soluzione, la condanna.
Il sostantivo deriva dal ben noto verbo κρίνω che vuol dire separare, distinguere, scegliere, risolvere, emettere una sentenza, accusare, condannare, valutare.        
I termini adoperati sono molti ma il significato di fondo è lo stesso o, quanto meno, rimanda ad un concetto unico anche se articolato.          
La crisi è la fase del giudizio finale, il momento in cui, si potrebbe dire, i nodi vengono al pettine e si è costretti a fare i conti con il proprio percorso; durante una crisi si sentono tutte le conseguenze delle proprie azioni e si è chiamati a render conto del proprio operato.                    
Non a torto un personaggio del calibro di Schelling sosteneva, nella sua filosofia della mitologia, parlando di ben altro, che ogni crisi è una sentenza; e ogni sentenza non costituisce forse, in quanto fine di un processo, un momento di risoluzione e di svolta? La crisi, pertanto, non può non essere anche frattura, separazione e scelta di qualcosa di nuovo. Parliamo, insomma, di quel delicato momento che contiene in sé, uniti in maniera inscindibile, fine ed inizio.      


martedì 10 giugno 2014

Robert Musil e quegli strani turbamenti


Ci sono libri che, quando arrivi all'ultima pagina,
ti lasciano in preda ad un turbamento non facilmente attribuibile ad una ragione precisa; trovo che appartengano a questa categoria i libri di Musil e, a un paio d’anni dalla lettura de L’uomo senza qualità, quello strano senso di turbamento mi ha assalita di nuovo di fronte a (mi si perdoni il gioco di parole)  I turbamenti del giovane Törless. 
Mentre lo leggevo ero dimidiata tra la voglia quasi ipnotica di continuare, pagina dopo pagina, per capire, per vedere, e un profondo senso di repulsione che a tratti minacciava di farmi lanciare il libro lontano.   
Non è un caso che la stessa duplice sensazione mi colga la maggior parte delle volte che leggo qualcosa di Nietzsche: bruciano e fanno male i punti “malati”, quelli in cui, dunque, c’è da scavare e qualcosa da capire.  E allora cos'è che fa male in ciò che scrive Musil? Genericamente penso sia la mancanza di appigli, il fatto che conduca il lettore di fronte alla natura ultima dell’essere umano per poi farlo precipitare dinanzi ad una terribile presa di coscienza: in realtà non c’è alcuna natura, nulla di stabile, nessun io che faccia da sostegno coerente ad un mare di slegati attributi. È l’incoerenza a diventare urticante nelle opere di Musil; il nostro occhio è ancora abituato al rassicurante personaggio tutto d’un pezzo e resta frustrato di fronte all'impossibile unitarietà di certi uomini senza qualità. Il giovane Törless, l’adulto Ulrich sono il risultato ultimo di una geniale ricerca che ha assunto come metodo la graduale distruzione di ogni certezza. La ricompensa per tutto ciò? La possibilità, nient'altro che la pura possibilità di essere chiunque. 

venerdì 30 maggio 2014

TFA sì, TFA no


Per chi come me si ritrova in tasca una laurea in Filosofia (et similia...) e permane da mesi, o anni in alcuni casi, nel misero stato di "disoccupato", questo periodo è quello della valanga di notizie relative allo stramaledetto TFA. Vige ultimamente l'imperativo morale di provare questo concorso che, già ad una prima occhiata, pare una gran fregatura da capo a piedi, a partire dal prezzo esorbitante: diciamocela tutta, se pure uno avesse 3000 euro in contanti nascosti sotto il cuscino, stento a credere che li tirerebbe fuori volentieri per un concorso che, se tutto va bene, ti garantisce un bel po' di anni di precariato! 
Non parliamo neppure, poi, delle famose domande che, a quanto pare, sembrano scelte in base al principio "apro l'enciclopedia a una pagina a caso e faccio una domanda sul primo nome della terza colonna". 
La cosa più fastidiosa, però, è che, coloro che si permettono di dire (e io sono tra loro) che NON HANNO NESSUNA INTENZIONE DI REGALARE SOLDI ALLO STATO CON IL TFA, si sentono rispondere sempre la stessa cosa: "Sì ma è una possibilità, se te la lasci sfuggire poi potresti pentirtene!" 
Passiamo ad una breve analisi filosofica del fenomeno: per quale arcano motivo una persona dovrebbe cogliere al volo TUTTE le possibilità che le si parano davanti? Perché non è possibile SCEGLIERE, SELEZIONARE soltanto quelle che  interessano davvero senza per questo essere additati come degli allocchi che se la fanno fare sotto il naso dagli eventi? 
Sembra che il panico da crisi abbia reso tutti incapaci di seguire un percorso coerente, fatto di scelte consapevoli; la paura di restare senza un lavoro per essere stati troppo schizzinosi tormenta quasi tutti. La parola SCELTA sembra che sia diventata tabù e l'uomo non è più l'essere che sceglie come vivere ma l'animale che è costretto ad ingurgitare ogni misera possibilità che gli si versa addosso dall'alto.

venerdì 23 maggio 2014

Sette minuti


Come il racconto precedente anche questo, ancora più breve, è stato precedentemente pubblicato su Fingerbooks (qui). Si intitola "Sette minuti" ma si legge in meno...


Sette minuti
Non aveva il coraggio di morire ma tanto meno quello di vivere; si ritrovava così, ormai da diversi mesi, sospeso nel bel mezzo del vuoto esistenziale, senza che di quello strano tunnel si vedesse la fine. Ma la cosa più singolare era un’altra: non era stato un errore a condurlo lì, non c’era stata deviazione che giustificasse quell'impasse. Quella che sembrava la più giusta delle vie l’aveva condotto lì, la via giusta, per lui, si era rivelata un vicolo cieco.                  
Dopo aver girato a vuoto per un paio d’ore, rientrò a casa. Gli sarebbe piaciuto trovare il silenzio aprendo la porta ma sapeva benissimo che così non poteva essere, c’era il chiasso di due fratelli ad attenderlo, c’erano le discussioni dei genitori, c’era l’onnipresente televisione. Certi giorni gli sembrava di affogare nel rumore della sua casa, un rumore che in qualche modo gli ricordava una vita dalla quale era escluso, un’operatività che a lui era preclusa. Quello che vive si fa sentire, almeno così gli avevano detto. Che doveva pensare di se stesso che attraversava la vita in silenzio?   
Entrò in casa come un gatto per poi raggiungere la sua camera: tre quarti della sua vita ormai si svolgevano tra quelle quattro mura, per lo più nella semioscurità. Quando si chiuse la porta alle spalle, senza che una sola domanda gli fosse stata rivolta, ancor meglio, senza che nessuno si fosse minimamente accorto del suo rientro, tirò un sospiro di sollievo.      
Passati un paio di minuti, lentamente si tolse la giacca, poi le scarpe, infine si sbottonò la camicia; sperava quasi di allentare in quel modo il nodo che gli stringeva lo stomaco ma non funzionò affatto.      
Alla fine aprì la finestra e l’aria fredda della serata di fine inverno gli ferì il viso e il petto. Nel giro di pochi secondi fu sul davanzale, in piedi, a guardar giù: abitava al settimo piano.       
Ventisei erano i suoi anni, venti gli anni trascorsi nel complesso tra i banchi, centodieci e lode il voto con cui aveva concluso la sua carriera universitaria, zero le ore di lavoro regolarmente retribuite, sette i minuti trascorsi da quando era salito sul davanzale della sua finestra.     
Con fare incerto si girò e saltò di nuovo dentro: non aveva il coraggio di vivere, o forse sarebbe stato più corretto dire che un qualcuno non meglio definito non gliene dava la possibilità, ma non aveva neppure la forza di morire.

domenica 18 maggio 2014

Come da programma

Il breve racconto che segue è stato già pubblicato su Fingerbooks (qui), ma lo ripropongo anche in questa sede.

Come da programma


Ai tempi del liceo tra i ragazzi della mia età circolava una leggenda metropolitana, tramandata di generazione in generazione, una leggenda che, superata la maggiore età, quasi tutti dimenticavano, lasciando i più giovani a lambiccarcisi il cervello quando non avevano nulla di meglio da fare.  
Forse per la pessima abitudine di riflettere troppo, forse per qualche elemento rimasto incastrato da qualche parte nelle profondità del mio inconscio, a vent'anni suonati quella leggenda ancora non usciva dalla mia testa. Parlava di una principessa addormentata quella storia, ma non di una di quelle che si trovano nelle favole, che aspettano il bacio del principe per risvegliarsi; se la leggenda fosse stata vera chiunque si sarebbe guardato bene dal destare la bella fanciulla dal suo sonno, perché la principessa sognava e la città in cui vivevamo e noi tutti eravamo il suo sogno. Questi i punti certi, seguivano poi una miriade di varianti relative ai dettagli: chi era la principessa, di cosa era principessa, perché dormiva e perché doveva sognare proprio la nostra realtà? Una delle versioni più affidabili che circolavano in rete rispondeva in maniera a dir poco inquietante a quelle domande: la principessa altri non era che una giovane dalle straordinarie capacità, che aveva trascorso la sua giovinezza chiusa in un laboratorio alla ricerca dell’innovazione tecnica del secolo, quella che le consentisse di sconfiggere la morte. La principessa della tecnica, non trovavo nome migliore per definirla, era rimasta però vittima di uno dei sui stessi esperimenti, aveva provato su se stessa una strana macchina che, cercando di perpetuare la vita, simulava la morte; la sua coscienza era precipitata quindi in un luogo tale solo in apparenza, perché in fin dei conti quella macchina l’aveva relegata a vivere all'interno della propria coscienza, congelando il resto delle sue funzioni vitali.                
Per me quella leggenda era una sorta di richiamo, senza che capissi esattamente il perché di tanto in tanto ci ripensavo ed ogni volta mi restava la netta sensazione di aver qualcosa da fare ma di aver dimenticato cosa.              
Una sera, tornando a casa dal lavoro, ci ripensavo ormai da una decina di minuti, quando un grosso gatto sporco, sebbene il marciapiede fosse quasi totalmente sgombro, mi sfrecciò tra le gambe interrompendo il corso dei miei pensieri; il sole stava tramontando e riuscii a vedere appena che la grossa bestia, dopo essersi infilata nel vicolo cieco alla mia destra, scomparve dietro al muro che le sbarrava la strada. Lo aveva magicamente attraversato! Mi sfregai gli occhi con le mani chiuse a pugno e mi decisi, dopo non pochi ripensamenti, ad avvicinarmi per esaminare il fenomeno da vicino ed eventualmente accertarmi di aver preso una svista: nessuna svista, quando allungai la mano verso il muro, mi resi conto che non c’era effettivamente nessun muro. In quel preciso istante mi tornò quella sensazione che conoscevo ormai bene: avevo qualcosa da fare e, per la prima volta, ero dove dovevo essere per farlo. Attraversai il muro con tutto il corpo e quando fui dall'altra parte mi trovai di fronte uno spazio ampio e vuoto, ma non ero più all'aperto: sembrava un parcheggio sotterraneo quel luogo, illuminato solo da qualche luce al neon qua e là. Pensai che, se quelle luci non ci fossero state, il posto sarebbe apparso più rassicurante. Mi mossi, attratto da una luce più intensa in fondo a quell'enorme spazio, ma a metà strada mi paralizzai: come delle luci di segnalazione dei faretti appesi al soffitto indicavano il corpo di una ragazza riversa sul pavimento di cemento. Accorsi in suo soccorso, vincendo il terrore. Mi chinai su di lei e non sembrava ferita, semplicemente dava l’impressione di essere addormentata. Le poggiai un orecchio sul petto per ascoltare se il cuore stesse ancora battendo; non feci in tempo a carpire il primo battito che sentii una mano posarsi delicatamente tra i miei capelli e costringermi a restare in quella posizione per qualche secondo.
«Come da programma sei qui» disse la ragazza.              
Era sveglia e probabilmente ero stato io a sottrarla al suo sonno.           
Mi alzai di scatto e lei iniziò a riaprire gli occhi lentamente e ad alzarsi: era bellissima e il suo corpo iniziò ad emanare luce man mano che sembrava riprendere i sensi. Lo spazio lì intorno prese a tremare ma lei non fece una piega.    
«Chi sei?» domandai spaventato.          
«Chi sono io lo sai bene, quello che non sai è chi sei tu» rispose sorridendo.    
«E chi sono io allora?»  
«Sei l’elemento del mio sogno, programmato, sin dall'inizio, col fine di interrompere il mio esperimento».
Quando me lo disse fu come se lo avessi sempre saputo; la guardai inebetito, poi guardai lo spazio intorno a me che si stava letteralmente sgretolando. Restò alla fine solo un cerchio di suolo intorno a me e a lei ma anche quello si restrinse gradualmente, fino ad arrivare al mio corpo che, senza alcun dolore, si sgretolò come il resto. Rimase solo la principessa alla fine, sospesa in quel vuoto, ma vi restò solo per cinque secondi, poi si risvegliò completamente. Alla fine di tutto lei restò lì, da tutt'altra parte avrebbe detto qualcuno, completamente nuda e con tanti fasci di fili elettrici intorno alla testa a farle da corona. Una voce non umana, proveniente dall'unità centrale della macchina che le faceva quasi da involucro, decretò: «Esperimento concluso!».

giovedì 8 maggio 2014

La cultura è inutile... PER COSA???

Mi si permetta di dire una cosa con tutta la franchezza e l'eleganza (evito la volgarità!) di questo mondo: che mi sono rotta eminentemente le scatole di leggere decine, centinaia di articoli, di post, di... tutto in cui si afferma che L'UNIVERSITà NON SERVE A NULLA, LO STUDIO NON SERVE A NULLA, LA CULTURA NON SERVE A NULLA!!!
Avete rotto le scatole con questo qualunquismo da quattro soldi! Vi ricordo, come prima cosa, che tanto potete dirlo, potete scriverlo in quanto qualcuno, a suo tempo, vi ha insegnato a farlo! Aggiungo inoltre che se avete interesse a scriverlo è perché in quel tanto schifato "mondo della cultura" ci siete immersi fino al collo, probabilmente siete laureati o quanto meno diplomati: se non lo siete non sapete di cosa state parlando, se lo siete state sputando nel piatto in cui mangiate. In questo secondo caso mi chiedo perché abbiate perso il vostro tempo tra i banchi e non vi siete dedicati prima all'agricoltura: ricordatevi che siete sempre in tempo!
Infine, last but not least, la cultura sarà anche inutile ma PER COSA? Al primo che mi risponde "per mangiare" (il che equivale a dire: "per far soldi") tiro in faccia la Fenomenologia dello Spirito (che, lo spiego per i "cultori dell'ignoranza", è un oggetto molto pesante...)!
Se l'uomo si fosse accontentato di mangiare si sarebbe estinto da un bel po'!


domenica 4 maggio 2014

Frivolezze canine

Oggi ho deciso di scadere nella frivolezza e descrivere un po’ il comportamento del mio cane. Sì, perché negli ultimi tempi, a quanto pare, basta dire in giro che ami gli animali per passare per una sorta di Madre Teresa di Calcutta rediviva… Che poi tu sia un omicida seriale o un rapinatore incallito poco importa, il solo fatto che tu abbia un cane, un gatto o un pitone in casa ti rende una persona immensamente buona!     
E dunque, dopo aver professato la mia bontà, passo alla fase descrittiva, atta a dimostrate che il mio cane è più umano di molti animali che si definiscono umani.
Punto primo: Sophie, il mio cane appunto, soffre di gelosia cronica. È gelosa di una gelosia che l’Otello di Shakespeare le farebbe un baffo! Lei attacca e strattona l’oggetto del suo desiderio se la di lui attenzione è stata momentaneamente carpita da qualcun altro. Oggetto del desiderio per eccellenza è mia madre (soffrirà anche un complesso di Edipo significativo!) dalla quale, ormai, sono costretta a tenermi ben lontana se voglio sottrarmi alla sua ira funesta.             
Punto secondo: Sophie odia stare sola, la solitudine la annoia e la rende triste, infatti dorme in camera con me e mia sorella, si sveglia all'alba, ci strattona per buttarci giù dal letto e, se per caso non ti fossi svegliata ancora, torna poco dopo, quando soffre la mancanza di mia madre che si assenta per una mezz'ora, e tanto si lamenta e ti infastidisce che tu sei costretta ad abbandonare il letto.    
Punto terzo: Sophie ha l’animo del feticista. Adora calzini, scarpe e piedi; i primi li ruba e li nasconde (quando non li mangia), le seconde le annusa e, in alcuni casi, ci si immerge con la testa fino al collo, i terzi li lecca con gusto (solo se ben puliti e profumati!).       
Punto quarto: Sophie, oltre ad essere innamorata di mia madre, è innamorata di mio fratello. Nei casi di liti furiose tra lui e mia sorella si mette in mezzo, salta, abbaia, ringhia e morde… il tutto contro mia sorella ovviamente! Quando lui torna a casa la sera abbaia fino a quando non entra in camera per salutarla.     
Punto quinto: Sophie è un cane egocentrico. Quando viene qualcuno a casa cerca in tutti i modi di attirare la sua attenzione; prima abbaia ininterrottamente, se non funziona porta all'ospite i suoi giocattolini, se non funziona neppure questo si dispone “a zerbino” con tanto di occhioni dolci. In quei casi estremi in cui l’ospite non concede neppure una mezza carezza si allontana indignata e lo guarda (è il caso di dirlo!) in cagnesco da un angolo del divano.                         
Punto sesto: Sophie ha la depressione delle 20:30; arrivata a quest’ora della sera inizia ad incupirsi, prende in suo pupazzetto preferito e lo porta di stanza in stanza alla ricerca di qualcuno che giochi con lei. Una volta mia sorella le ha nascosto il suddetto pupazzetto ma la cagnetta ha buttato all'aria tutto ciò che si frapponeva tra lei e l’amato giocattolo, che tanto bene si adatta al suo umore nero.         
Punto settimo: Sophie lancia sfide ai componenti della famiglia e ai gatti. Qui sarà più chiaro un esempio: se le dai del cibo che non le piace, lei non lo mangia ma neppure lo lascia, lo piazza in uno spazio intermedio tra lei e il gatto fingendo di essere distratta, non appena il malcapitato si avvicina per afferrare il cibo lei lo aggredisce. Stessa tattica con vestiti, tappeti e persino cellulari, con la variante che invece di aggredire scappa.                                             




domenica 27 aprile 2014

L'uomo-ombra: una Critica a chi critica

L’animale uomo è qualcosa di ben strano, se lo si osserva attentamente ci si rende conto che nasconde (più o meno!) una serie di meccanismi perversi tra i quali uno, nelle sue varie forme, si ripropone di continuo, mascherato da semplice, per quanto fastidiosa, abitudine. Parlo della consuetudine tanto diffusa dell’individuare e condannare le mancanze altrui e che, secondo il mio modesto parere, nasconde ben altro rispetto alla mera critica fine a se stessa. Il vero problema è che, quando qualcuno è tanto sollecito nel portare alla luce e sottolineare il difetto dell’altro, implicitamente sta anche ammettendo che quel difetto, lui che sta criticando, reputa di non averlo. In altri termini, sottolineando che X difetta di qualcosa, implicitamente si sta dicendo che X è inferiore a noi in quel qualcosa, dunque nella critica (quella che i difetti li crea ad hoc!) vi è una vera e propria autoesaltazione di chi critica.    
Questa logica, però, si può espandere, in quanto funziona tanto per il singolo individuo quanto per i gruppi dei quali fa parte.  
Virginia Woolf in “Una stanza tutta per sé” rinviene questo meccanismo di auto-celebrazione nell'intero genere maschile, almeno per quanto riguarda i secoli passati (ma la questione è più attuale di quanto si pensi!); per lungo tempo l’uomo, inteso qui come maschio, ha visto nella donna una sorta di specchio che ingigantisse il suo ego: nel dichiarare e sottolineare l’inferiorità della donna sottintendeva la propria grandezza. “Per tutti questi secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi, dal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata la figura dell’uomo” dice la Woolf, e si intende che il potere fosse magico e delizioso per i soli uomini! Che il tutto si basasse (si basi) su un assunto che è in sostanza un pregiudizio era cosa poco rilevante se paragonata ai vantaggi ricavabili in termini di sicurezza; e che la sicurezza così ottenuta avesse i piedi di argilla, come il gigante del diffuso modo di dire, è ancora un’altra questione…              
Tornando al problema principale, qualche riga più avanti la Woolf continua, riportando anche degli esempi più che chiari: “Qualunque sia il loro uso nelle società civilizzate, gli specchi sono essenziali a ogni azione violenta ed eroica. Perciò Napoleone e Mussolini insistono tanto enfaticamente sull'inferiorità delle donne, perché se esse non fossero inferiori cesserebbero di ingrandire loro”.           
Il discredito gratuito, a quanto pare, fonda intere personalità. Identità apparentemente solide altro non sono che pallide ombre, ovvero un negativo, generato solo grazie al fatto che un oggetto ha coperto il sole. L’ombra è l’ego, tanto più grande quanto più forte è il meccanismo che impedisce di vedere la realtà per quella che è. Tutto ciò che circonda l’uomo-ombra, in tutte le sue accezioni, è strumentalizzato, finalizzato alla sua auto-celebrazione; altro presupposto fondamentale perché l’auto-ingigantimento sia efficace, infatti, è la riduzione dell’altro a cosa. L’oggetto di disprezzo dell’uomo che passa la vita a “parlar male di”, lo straniero per lo xenofobo, la donna per il maschilista, è l’Altro irriducibile che non potrà mai essere soggetto come loro, perché la persona per eccellenza, il Soggetto, sono solo loro e l’altro è solo un mezzo attraverso il quale nutrire il proprio Sé.         
Di casi singoli se ne incontrano in abbondanza nella vita di tutti i giorni ma anche i casi collettivi sono sotto gli occhi di tutti; un esempio, oltre quello del maschilismo, valga per tutti: la Lega Nord. 
Sono ben pochi ormai quelli che non conoscono i suoi slogan; ma il problema sostanziale della Lega è che tutte le sue “idee” non sono nulla di più di un NO continuo, una critica incessante a immigrati, omosessuali, meridionali, politici di Sinistra e via dicendo. L’identità leghista emerge dal continuo sottolineare le mancanze altrui, il collante di quell'identità è lo sminuire l’altro, come la base dell’identità del maschilista è lo sminuire la donna.               
Mai come in questi casi è adatto l’appello nietzschiano a difendere i forti contro i deboli!

giovedì 10 aprile 2014

Piccola apologia delle discipline umanistiche


Bazzicando in rete, quando non si ha qualcosa di preciso da fare, ci si può imbattere in discorsi e battibecchi quanto meno irritanti, soprattutto quando tirano in ballo quello a cui stai praticamente dedicando la tua vita.              
E dunque, la questione è la seguente: l’imbecille di turno (mi si conceda di chiamarlo tale perché di altro non si tratta!), che è solo il rappresentante ideale di tanti suoi simili, deride/disprezza chi decide di intraprendere un percorso di studi umanistici (nel caso particolare si trattava proprio della mia filosofia) perché non dà lavoro subito, ma, soprattutto, non darà mai soldi a palate! Dopo tutto si sa, continuava il grande uomo di mondo nel suo pseudo-ragionamento, se un percorso di studi non porta a riempirsi le tasche è inutile, non ha alcuna ragion d’essere e coloro che lo scelgono sono un branco di cretini, futuri pezzenti, da commiserare nella migliore delle ipotesi!      
Qualcuno ha messo un po’ in moto il cervello ed ha osato rispondere a cotanta saggezza che, dopo tutto, dei soldi ce ne facciamo ben poco se poi siamo costretti a fare per tutta la vita un lavoro che non ci piace e, aggiungo io, se siamo costretti a passare svariati anni sui libri di una disciplina della quale non abbiamo nessuna considerazione se non in relazione ai soldi che ci potrebbe far guadagnare in futuro.        La risposta, ovviamente, è stato un ritornare sui soldi ignorando l’argomento lavoro…                 
Ora mi chiedo, sinceramente, se una persona con un briciolo di cervello possa davvero pensare di svolgere una professione badando solo all'aspetto economico, come se in fondo si potessero ignorare tutte le ore che uno trascorre a lavorare e pensare solo al momento in cui ci ritroviamo il compenso tra le mani. Il lavoro che si sceglie di fare, che si voglia o no, ci caratterizza e a lungo andare diventa parte della nostra identità.            
Questo non è certo un modo per dire che il denaro non serva a nulla, di quello c’è sempre bisogno, ma, mi si scusi la banalità, è possibile davvero vivere in funzione del denaro, scegliere un lavoro solo in base al denaro, scegliere chi essere esclusivamente in base al denaro?          
Il lavoro è un mezzo di sopravvivenza che è, allo stesso tempo, fine dell’esistenza di un essere umano; il denaro è un mezzo e basta e, dopo decenni e decenni di teorizzazione in proposito, non posso fare a meno di constatare che un po’ di filosofia a certa gente servirebbe con estrema urgenza, perché possa capire quanto meno su che strada sta muovendo i propri passi. 
Passiamo al punto dolente, il fatto che parlo anche per esperienza personale: laurea in filosofia e niente lavoro.           
“Lo vedi!” mi direbbe compiaciuto (e di fatto lo dice) qualcuno dei “saggi signori” nominati all'inizio.     
Ma la mia risposta, e spero quella di molti nelle mie stesse condizioni, non può che essere questa: nessuno di quelli che intraprendono un percorso di studi umanistici è tanto ingenuo da credere di trovare un lavoro il giorno dopo la laurea o di far soldi a palate una volta trovata un’occupazione; ma qualcuno dei grandi praticoni che si aggirano nel mondo, virtuale e (purtroppo) non, ha forse mai pensato che, probabilmente, non era quello, i soldi a palate, il fine di chi ha fatto una scelta del genere?       
Forse faremo la fame, forse lavoreremo solo dopo i 40 anni, ma quanto meno eviteremo la frustrazione perenne derivante dal non essere nel posto in cui volevamo essere e, a confronto di questa, la frustrazione del non trovare lavoro sembrerebbe quasi cosa da poco.         
Grandi ingegni pratici, interrogatevi! Sempre che non abbiate paura di mischiarvi con i filosofi...

sabato 5 aprile 2014

Intervista post Time Warp


Dopo la già annunciata pubblicazione della raccolta di racconti Time Warp, è giunta persino l'ora dell'intervista! Non ci credevo neppure io ma la prova la si trova esattamente qui.
Tra le altre cose, rispondere ad un paio di domande, mi ha aiutata a ripensare a quello che avevo scritto a distanza di tempo, la qual cosa non guasta mai.

giovedì 27 marzo 2014

Si presenti prego!

Sapete quando una, che si è laureata in Filosofia da sei mesi e da altrettanto tempo cerca e non trova lavoro, si incazza seriamente? Quando prova ad avanzare la propria candidatura per un lavoro che non le compete neppure lontanamente, nella fattispecie quello di stramaledetta portalettere presso le Poste Italiane, e le chiedono la LETTERA DI PRESENTAZIONE! 
Dunque ditemi, quali grandiose doti dovrei mai dichiarare di possedere per essere assunta? Quali doti, se uno dei tizi che portava la posta dalle mie parti, qualche anno fa, la buttava nei canali di scolo perché evidentemente era troppa fatica per lui portarla a destinazione? Quello ne avrà avute di doti, chissà che lettera di presentazione! Rabbia a parte, la questione è la seguente: a che pro una selettività che sembra essere solo di facciata? Perché, se di facciata non fosse, il nostro Paese verserebbe in ben altre acque a questo punto, non ci vuole l’oracolo di Delfi per capirlo!  
Credo seriamente che in tempi come questi l’essere snob (choosy avrebbe detto qualcuno che stava ai piani alti qualche tempo fa) sia quasi un imperativo morale. Solo così, forse, le cose potrebbero iniziare a tornare al proprio posto.

sabato 22 marzo 2014

Quando ti innamori dell'ennesimo film d'animazione: Frozen

Quanto più vado avanti con gli anni, tanto più mi convinco del fatto che i cartoni animati, certi cartoni animati, non siano solo roba da bambini. Con Persepolis era ben chiaro e sfiderei chiunque a sostenere il contrario, qualche dubbio in più, che proverò ad eliminare, qualcuno lo potrebbe avanzare riguardo al film d’animazione del quale sto per parlare e cioè Frozen. Il regno di ghiaccio. Pensavo di mettere in stand-by il cervello per quell'oretta e mezza del film, ma questo sarebbe potuto accadere se non avessi badato ai “sottintesi”; sono del parere che ogni film sottintenda un modo di idee, a seconda di quello che sembra dare per scontato. Non è un caso che il cinema sia stato considerato un potente mezzo di propaganda dalle peggiori dittature del secolo scorso: fai apparire come normale, come ovvia, una cosa e la gente penserà davvero che lo sia!   
Vediamo, dunque, cosa dà per scontato questo film d’animazione dagli scenari stupendi (sono attratta dai paesaggi freddi, c’è poco da fare!).
Ci sono due principesse, due sorelle estremamente diverse, la prima della quali, Elsa, è gravata dal peso di un potere straordinario e pericoloso allo stesso tempo. Il primo dato interessante è proprio il non dare un’interpretazione netta, positiva o negativa, del potere della principessa: il potere di Elsa di congelare qualsiasi cosa tocchi è la possibilità di scelta, è il bene e il male a seconda di come lo si usi. Solo una cosa può inibire questa possibilità: la paura di coglierla.      
Secondo dato: riconoscere il potere di chi ci sta intorno di far apparire un dono come una maledizione e viceversa. Nulla in sé è un dono o una maledizione in realtà, ma se non si sta in guardia di fronte alle opinioni, anche delle persone più care, la più grande possibilità può diventare un peso opprimente. Chi siamo e cosa possiamo fare di quello che siamo lo dobbiamo decidere solo guardando per bene dentro noi stessi e non intorno a noi.          
Terzo punto, quello che fa capire che ormai (ed era pure ora!) la visione dei ruoli sociali sta iniziando a cambiare: se si dà un occhiata ai personaggi si troverà una principessa, un’altra principessa, un principe opportunista, un commerciante di ghiaccio generoso, una renna e un pupazzo di neve. Secondo la tradizione delle fiabe ad ogni principessa spetterebbe un aitante sposo che la salvi... Secondo la tradizione appunto! Qui, invece, la protagonista, Elsa, non solo resta felicemente nubile alla fine del film, ma, come profetizzato dai troll, si rivela anche essere colei che, con “un atto di vero amore”, riesce a salvare la vita della sorella Anna.        
Una principessa che ne salva un’altra era merce rara da trovare nella nostra cultura!  
Credo sia ormai superfluo dare esplicitamente la mia approvazione a questo film, ma aggiungerei ancora che a suo favore giocano anche le colonne sonore: non a caso, proprio ascoltandone una, mi sono incuriosita e ho deciso di guardarlo.



giovedì 20 marzo 2014

Time Warp. Storie ai confini del tempo e ritorno


Come ho sempre sostenuto, per chi studia o ha studiato Filosofia, quella del tempo è una delle grandi ossessioni: come si controlla, se si può controllare ma soprattutto cos'è?
Secondo Kant si tratta di una delle condizioni di possibilità, insieme allo spazio, della conoscenza sensibile, ma, speculazioni a parte, di tanto in tanto anche i filosofi danno di matto e iniziano a giocare col concetto di tempo... 
Tra questi strani animali da biblioteca ci sono anche io e, a quanto pare, il mio gioco a qualcuno è anche piaciuto, visto che il raccontino che ne è risultato è stato pubblicato, insieme ad altri 11, in una raccolta dal titolo Time Warp. Storie ai confini del tempo e ritorno
In questo libricino dalla copertina intrigante (almeno così la vedo io) troverete ogni sorta di fantasia sul tempo applicata a delle storie di vita passata, presente e futura; la mia occupa la posizione numero sei per ordine di comparsa e si intitola (banalmente, lo so!) Il Tiranno. Non anticipo nulla del contenuto, anche perché non so esattamente se il contratto firmato me lo permetta, tuttavia posso assicurare che si tratta di uno scritto non troppo lungo e facile a leggersi.
I restanti racconti sono scritti bene e presentano spunti di riflessione interessanti riguardo al tema centrale, quindi direi che valga la pena di passarli in rassegna tutti: è incredibile quanto possa essere prolifica la mente umana quando pensa ma soprattutto quando si arrovella su certi argomenti! 
Nel caso avessi stimolato la curiosità di qualcuno, ecco dove è possibile trovare il libro: qui.

giovedì 27 febbraio 2014

Tra i grandi assenti la realtà

Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà… E dunque, non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà… [Luigi Pirandello – I vecchi e i giovani]. 


Nel capitolo finale de I vecchi e i giovani di Pirandello si può leggere il brano che ho appena riportato: un raggio di universalità nel bel mezzo della Storia. Perché è di un romanzo storico che stiamo parlando, un romanzo che è un colpo scagliato dritto in faccia all'unità d’Italia. Le idee erano buone certo, buoni anche gli intenti di quelli che l’unità l’hanno fatta… Ma cos'è rimasto, poi, degli ideali una trentina di anni dopo? Pirandello non esita a buttar giù, pezzo per pezzo, l’illusione ma la particolarità qui sta nel fatto che quest’illusione si presenta come la sola realtà.            
Il paragone potrebbe essere azzardato ma non può non tornarmi in mente qualche insegnamento del buon vecchio Nietzsche: in comune c’è un’assenza che fa scalpore, quella della “realtà”.       
E non può non suonare come un’esortazione alla vita, un modo tutto pirandelliano di dire sì alla vita, quell'”affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude”. Manca la realtà vera e con essa il senso ultimo delle cose, ma è proprio questo, paradossalmente, ad assicurare leggerezza all'esistenza. Senza più un senso prestabilito la vita ha la consistenza di un gioco.              
Lo stesso Nietzsche sosteneva nella sentenza 94 di Al di là del bene e del male: “Maturità dell’uomo: ciò significa aver ritrovato la serietà che si aveva da piccoli nel gioco”.     
La vita umana è tragedia o commedia? Non si può che restare indecisi di fronte a questa doppia prospettiva. 

venerdì 21 febbraio 2014

C'è chi pensa che siano nate col velo in testa: due parole su Persepolis

Persepolis: questo l’ultimo film che ho guardato, un cartone animato lo definirebbe qualcuno molto banalmente. In realtà dietro alle forme quasi infantili, in gran parte in bianco e nero, ho avuto modo di notare un modo interessante di raccontare una storia che è diventata ormai uno sfondo muto delle nostre giornate. Ebbene in Persepolis questa storia, anzi questa Storia, torna a mostrarsi in tutta la sua vicinanza e pericolosità: la qualità interessante di questo film è proprio l’intelligenza con la quale il tema è avvicinato allo spettatore, il quale non è più portato a sentirlo come tanto lontano da sé.          
Alzi la mano chi, di fronte al bombardamento di notizie relative alle guerre e rivolte che devastano da decenni il Medio Oriente, l’Iran nel caso del film in questione, non ha tirato un sospiro di sollievo pensando “È lontana, qui non può accadere”. Oppure quante volte la lontananza ci fa pensare ad una situazione quotidiana totalmente diversa dalla nostra, come se quelle terre fossero davvero un altro mondo e solo in virtù di questa alterità la guerra vi abbia potuto trovare spazio. Insomma, per dirla diversamente, percepiamo la nostra quotidianità come imperturbabile.     
È stato strano ieri apprendere, attraverso un film d’animazione, come la Storia possa effettuare bizzarre inversioni di marcia, come quello che chiamiamo progresso possa bloccarsi a causa di eventi che fino al giorno prima si reputavano lontani e improbabili. Lì ti rendi conto che in fondo, il motivo per cui sono rese possibili le mostruosità della Storia, è più banale di quanto si pensi (Hannah Arendt docet!): forse è la troppa sicurezza, il cullarsi sul fatto che, dopo tutto, siamo intoccabili e certe catastrofi accadano sempre lontano da noi. La catastrofe inizia quando si decide di mettere il cervello in stand-by, attivando in qualche modo un pilota automatico che guidi al posto nostro, rassicurandoci in merito all'improbabilità di ogni pericolo.            
La dice lunga l’affermazione del padre della protagonista/autrice del film (e della graphic novel da cui è tratto), Marjane Satrapi, che sottolinea che, quando lui e la madre della ragazza avevano quindici anni, potevano camminare per strada tenendosi per mano, cosa in seguito vietata, insieme a tante altre, dai fondamentalisti islamici saliti al potere in Iran. Non ho potuto fare a meno di pensare che in genere si dice il contrario, o almeno si pensa che sia logico solo dire il contrario.                
E noi pensiamo ancora che le donne iraniane (e non solo quelle) siano nate col velo in testa?