giovedì 27 febbraio 2014

Tra i grandi assenti la realtà

Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà… E dunque, non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà… [Luigi Pirandello – I vecchi e i giovani]. 


Nel capitolo finale de I vecchi e i giovani di Pirandello si può leggere il brano che ho appena riportato: un raggio di universalità nel bel mezzo della Storia. Perché è di un romanzo storico che stiamo parlando, un romanzo che è un colpo scagliato dritto in faccia all'unità d’Italia. Le idee erano buone certo, buoni anche gli intenti di quelli che l’unità l’hanno fatta… Ma cos'è rimasto, poi, degli ideali una trentina di anni dopo? Pirandello non esita a buttar giù, pezzo per pezzo, l’illusione ma la particolarità qui sta nel fatto che quest’illusione si presenta come la sola realtà.            
Il paragone potrebbe essere azzardato ma non può non tornarmi in mente qualche insegnamento del buon vecchio Nietzsche: in comune c’è un’assenza che fa scalpore, quella della “realtà”.       
E non può non suonare come un’esortazione alla vita, un modo tutto pirandelliano di dire sì alla vita, quell'”affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude”. Manca la realtà vera e con essa il senso ultimo delle cose, ma è proprio questo, paradossalmente, ad assicurare leggerezza all'esistenza. Senza più un senso prestabilito la vita ha la consistenza di un gioco.              
Lo stesso Nietzsche sosteneva nella sentenza 94 di Al di là del bene e del male: “Maturità dell’uomo: ciò significa aver ritrovato la serietà che si aveva da piccoli nel gioco”.     
La vita umana è tragedia o commedia? Non si può che restare indecisi di fronte a questa doppia prospettiva. 

venerdì 21 febbraio 2014

C'è chi pensa che siano nate col velo in testa: due parole su Persepolis

Persepolis: questo l’ultimo film che ho guardato, un cartone animato lo definirebbe qualcuno molto banalmente. In realtà dietro alle forme quasi infantili, in gran parte in bianco e nero, ho avuto modo di notare un modo interessante di raccontare una storia che è diventata ormai uno sfondo muto delle nostre giornate. Ebbene in Persepolis questa storia, anzi questa Storia, torna a mostrarsi in tutta la sua vicinanza e pericolosità: la qualità interessante di questo film è proprio l’intelligenza con la quale il tema è avvicinato allo spettatore, il quale non è più portato a sentirlo come tanto lontano da sé.          
Alzi la mano chi, di fronte al bombardamento di notizie relative alle guerre e rivolte che devastano da decenni il Medio Oriente, l’Iran nel caso del film in questione, non ha tirato un sospiro di sollievo pensando “È lontana, qui non può accadere”. Oppure quante volte la lontananza ci fa pensare ad una situazione quotidiana totalmente diversa dalla nostra, come se quelle terre fossero davvero un altro mondo e solo in virtù di questa alterità la guerra vi abbia potuto trovare spazio. Insomma, per dirla diversamente, percepiamo la nostra quotidianità come imperturbabile.     
È stato strano ieri apprendere, attraverso un film d’animazione, come la Storia possa effettuare bizzarre inversioni di marcia, come quello che chiamiamo progresso possa bloccarsi a causa di eventi che fino al giorno prima si reputavano lontani e improbabili. Lì ti rendi conto che in fondo, il motivo per cui sono rese possibili le mostruosità della Storia, è più banale di quanto si pensi (Hannah Arendt docet!): forse è la troppa sicurezza, il cullarsi sul fatto che, dopo tutto, siamo intoccabili e certe catastrofi accadano sempre lontano da noi. La catastrofe inizia quando si decide di mettere il cervello in stand-by, attivando in qualche modo un pilota automatico che guidi al posto nostro, rassicurandoci in merito all'improbabilità di ogni pericolo.            
La dice lunga l’affermazione del padre della protagonista/autrice del film (e della graphic novel da cui è tratto), Marjane Satrapi, che sottolinea che, quando lui e la madre della ragazza avevano quindici anni, potevano camminare per strada tenendosi per mano, cosa in seguito vietata, insieme a tante altre, dai fondamentalisti islamici saliti al potere in Iran. Non ho potuto fare a meno di pensare che in genere si dice il contrario, o almeno si pensa che sia logico solo dire il contrario.                
E noi pensiamo ancora che le donne iraniane (e non solo quelle) siano nate col velo in testa?

lunedì 17 febbraio 2014

Piccola riflessione su La Grande Bellezza

Oltre un anno fa mi sono imbattuta in This must be the place di Paolo Sorrentino; dico “imbattuta” perché in fondo penso che si incontrino i film e i libri, così come si incontrerebbe una persona nella vita di tutti i giorni e, esattamente come nella vita di tutti i giorni, ci si trova di fronte a personaggi più o meno simpatici, più o meno interessanti, più o meno profondi.      
This must be the place è stato una conoscenza interessante e alla quale attribuirei un certo spessore, quindi, mossa da questa constatazione più che dal gran vociare degli ultimi tempi, ieri ho dedicato un po’ di spazio della mia giornata a La grande bellezza: a posteriori posso dire che avrebbe meritato anche molto più di “un po’ di spazio”.   
Senza soffermarmi troppo sulla trama che sarà ormai di dominio pubblico e che, di fatto, in film di questo tipo, nei quali l’azione è ridottissima, è pressoché irrilevante, arrivo direttamente al dunque, rispondendo alla semplice domanda: perché mi è piaciuto? La risposta: perché sbatte in faccia agli italiani e al mondo intero qualcosa che tutti vedono ma nessuno nota davvero.            
Sì, perché chi mai oserebbe rompere il tanto comodo sodalizio tra “cultura” e mondanità? Chi oserebbe mai dire che, dopo tutto, buona parte dei nostri adorati intellettuali, posti sul piedistallo da altrettanti promettenti intellettuali, passano le proprie giornate a discorrere del nulla? E badiamo bene a scrivere “nulla” con la n minuscola, perché se discutessero del “Nulla” già si dovrebbe attribuire loro una profondità che, invece, non hanno il tempo di sviluppare. Perché in fin dei conti, non ci permettiamo di dire che manchino le capacità a questa schiera di intellettuali che sembra crescere di giorno in giorno, quello che a loro manca è il tempo! Dove dovrebbero mai trovarlo il tempo di riflettere davvero se le loro giornate trascorrono sullo sfondo di un incessante quanto assordante chiacchiericcio?              
Bisogna avere il coraggio di dire una buona volta che la vita dell’intellettuale richiede una scelta radicale, quella della distanza dal mondo, della distanza dalla vita sociale sarebbe meglio dire, perché è bene guardare le cose da vicino per comprenderle, ma non al punto tale da esserne risucchiati: non occorre un distacco totale ma la giusta distanza che permette di riflettere. Ed è proprio la riflessione che ormai è divenuta merce rara, non si è più disposti a concedere a persone e cose il tempo di cui hanno bisogno per essere comprese. All’intellettuale da quattro soldi dovrebbe subentrare il riflessivo, perché la cultura nasce e si diffonde dove inizia a venir meno il vuoto parlare.               
Siamo caduti in basso perché non siamo più in grado, quasi nessuno è più in grado, di soppesare il valore umano di chi ci sta di fronte e, senza valore umano, difficilmente c’è valore intellettuale.
Rendiamo grazie a Sorrentino per aver puntato il microscopio su questa ferita ormai fin troppo infetta.             

domenica 2 febbraio 2014

Tutto secondo natura


In genere non mi piacciono le teorie che tendono a presentare l'individuo come fondamentalmente incompleto, alla perenne ricerca della sua metà, mi piace pensare che l'altro sia sempre un di più al quale ci si rivolge non per bisogno ma per libera volontà, per scelta.

Non di meno trovo il brano che segue particolarmente bello e credo valga la pena di riportarlo. 
"Non per una scelta, che possa essere modificata, né per assecondare un capriccio, ma per corrispondere a una primaria e insopprimibile esigenza di completezza, per guarire  dalla malattia di essere soltanto un symbolon, per riconquistare quell'uno che eravamo – per questi inderogabili motivi, ciascuno di noi è sempre alla ricerca dell’altra mezza tessera che lo completa.          
Le inclinazioni sessuali sono perciò – tutte – conformi a natura, tutte conseguenti alla nostra condizione di un tempo, tutte dipendenti da quella originaria physis che nessuno di noi ha scelto, ma che è la matrice delle nostre propensioni attuali. L’imperativo che tutti ci accomuna è il ripristino di quell'intero che eravamo. La via da seguire, per realizzare questo scopo, è quella di ritrovare, sospinti dalla forza dell’amore, l’altra metà che combacia con la parte che ciascuno di noi è attualmente. Non dipende dalla nostra discrezionalità, né da un’ipotetica libera scelta, a quale sesso ci indirizziamo per riformare l’unità originaria. Il percorso è già segnato, ed è costituito dalla nostra “antica natura”, da ciò che eravamo, prima che sopravvenisse il “taglio”. Ogni comportamento sessuale – il maschio che cerca il maschio, la femmina che cerca la femmina, il maschio e la femmina che cercano l’altro sesso – è dunque pienamente naturale, perché sempre si tratta di far combaciare le due parti della tessera" [Umberto Curi - L'apparire del bello].