martedì 26 marzo 2013

lunedì 25 marzo 2013

Piccola nota su Kafka

Tra le opere di Kafka che mi è capitato di leggere (Il processo, America, La metamorfosi e qualche altro racconto) Il Castello è quella che trovo più inquietante per molti aspetti ma sicuramente tutti sono riassumibili nella figura stessa del castello che dà il nome all'opera. Ci si aspetterebbe (almeno io me l'aspettavo) che il famoso castello rappresenti quanto meno il luogo dell'azione, invece ci si ritrova di fronte ad una costruzione lontana, alla quale tutti fanno riferimento, perché da esso dipende la vita degli abitanti del villaggio dove giunge il protagonista, e tuttavia non si riesce a capire chiaramente in che modo tutto possa dipendere dall'insolita costruzione, un'immensa ed instancabile macchina burocratica i cui funzionari sono inavvicinabili quasi quanto il castello stesso. 
A tratti si ha l'impressione che sia tutta una costruzione della mente, che alla fin fine il castello sia vuoto e a tenere in piedi gli ingranaggi della macchina siano quegli stessi individui che vi sono sottomessi; eppure il protagonista è completamente in balia della misteriosa forza che gli impedisce di avvicinarsi al luogo del potere, quello stesso luogo il quale, sembrerebbe per errore, è stato origine, anni prima, della decisione di assumerlo al villaggio quale agrimensore. 
Il castello sembrerebbe quasi la metafora di tutte quelle forze invisibili che dominano l'uomo ma che, non di meno, sono costruzioni dell'uomo stesso, è la morale, è il destino, è Dio, se vogliamo, tutto ciò che l'umanita crea e pone al di sopra di se stessa per potervisi assoggettare in cambio di un po' d'ordine.
In fin dei conti, coloro che impediscono a K. di fare irruzione nel castello, presentandolo come inaccessibile, sono gli abitanti del villaggio, perché la possibilità di sovvertirne l'ordine esiste, K. la sfiora e non se ne accorge. 
Per quanto remota sia la possibilità, ogni essere umano è un potenziale distruttore di castelli.

domenica 24 marzo 2013

Bugie senza colpa: settimo risveglio


E col settimo si può chiudere...

SETTIMO RISVEGLIO

Quando aprii gli occhi sul mondo, mi resi conto della stranezza del sogno nel quale ero stato immerso fino a quel momento, se di sogno si era trattato, visto che, fino ad allora, avevo preso per reale tutto quanto e forse, persino in quel frangente, stavo sognando di aver sognato.
C’erano tanti esseri che si affaccendavano sin dai primi istanti del loro risveglio nel mio sogno, mentre io… Cosa stavo facendo io?  Semplicemente mi svegliavo dalla realtà.
Già in piedi e non disteso, senza tutte quelle pratiche particolari che gli esseri del mio sogno avevano messo in scena dopo il risveglio, mi misi in cammino. Era quello il mondo reale, un deserto, nulla di più. C’ero solo io in quel deserto senza costruzioni, senza traccia alcuna di passaggio prima del mio.
Iniziavo a ricordare per quale motivo avessi cercato rifugio in quel sogno, dove tutto era in movimento, dove l’unico cedeva il posto al molteplice, alla varietà. Era volontario il mio sogno? Forse lo era…
Talmente era l’abitudine alla distinzione e all’artificio che quasi mi stupii nello scoprirmi senza uno straccio addosso e totalmente in bilico tra i due sessi. Era stato un gioco, tutto un grandioso gioco della mia mente la distinzione! Di me avevo fatto molti, da un unico sesso indistinto ne avevo ricavati due: era stata una strana esprerienza la scissione e, dopo tutto, avevo creato un gran caos e tanto smarrimento, perché tutte quelle proiezioni di me, in fondo, sapevano di essere uno e che altro era solo un modo diverso per dire io. Davvero una bella messa in scena!
Avanzavo in quello spazio vuoto che, mentre dormivo, avrei definito Nulla e cercai di calcolare per quanto tempo avessi dormito. Ma mi ingannavo ancora! Il tempo era un’altra delle mie invenzioni oniriche, un’altra arbitraria divisione di un’unità indistinta. Non potevo più pensare in termini di tempo; il battito delle mie ciglia era miliardi di anni e i miliardi di anni erano svaniti senza dolore, perché, fondamentalmente, neppure il dolore esiste dove c’è unità: se è la divisione a determinarlo, come può esistere laddove la divisione, in tutte le sue forme, è solo illusione?
Osservai il mio Nulla con amore: era esso la condizione grazie alla quale era stato possibile il mio sogno; eppure di quel Nulla eterno ne avevo avuto abbastanza e così la realtà aveva fatto irruzione nella mia mente. Ma che dico? Irruzione? A dire il vero c’era già da sempre e si era solo resa manifesta nel sogno, il mio sogno reale, con tutte le sue tragiche distinzioni, con la sua bellezza decomposta; è difficile mettere insieme i pezzi di una bellezza in frantumi e, solo in stato di veglia, potevo sapere cosa fosse la bellezza nella sua unità.
Procedevo nel deserto senza ostacoli, perché il Nulla non ha confini, ripensando agli affanni e alle gioie dei miei frammenti umani: era stato come guardarsi in uno specchio andato in pezzi e vedere un numero infinito di sfaccettature di sé. Quale modo migliore per vedersi, osservarsi, conoscersi? I sogni illuminano! Sembra tutto messo a caso e, invece, c’è un filo: io li avevo visti tutti i fili, perché li avevo creati.
Mi fermai in uno degli infiniti non-punti di quel non-spazio del quale ero parte. Ero al punto di partenza perché lo spazio nel Nulla non esiste e tutti i punti di partenza sono punti di arrivo. Non ci sono distanze da percorrere, tutti i punti sono uno solo. Quante distanze avevo escogitato per i miei frammenti umani! Le distanze sono separazioni e le separazioni sono illusioni oniriche.
Richiusi gli occhi e la realtà ricomparve: erano trascorsi tre minuti o tremila anni, per me non c’era differenza. Tutto era come lo avevo lasciato; i miei frammenti umani intenti a percorrere le loro distanze, ad impiegare il loro tempo, a soffrire per le loro differenze, per il loro non essere gli uni gli altri. Soffrono per un’illusione: loro sono i loro altri!
M’immersi nel sogno e ridiventai ciascuno di loro.

sabato 23 marzo 2013

Bugie senza colpa: sesto risveglio

SESTO RISVEGLIO

Il telefono suonò cinque, forse sei volte, prima che mi alzassi dal pavimento e andassi a rispondere.
La voce di mia madre m’investì determinando l’immediata reazione delle mie tempie doloranti.
- Tesoro, tutto bene? Perché non rispondevi?
Fissai per un istante il punto del pavimento dove ero stata distesa appena trenta secondi prima. E poi il caos, caos ovunque.
- Scusa mamma… è solo che… che ero molto stanca e ho dormito tanto… più del solito…
Mi massaggiai le tempie con le dita e sbadigliai.
- Oh lo sento cara! Hai fatto colazione?
- No mamma, te l’ho appena detto… dormivo e…
- E allora devi assolutamente correre a farla!
Dopo un sì che nascondeva appena la noia, ascoltai le svariate raccomandazioni che stonavano decisamente con la mia età, i suoi saluti prolungati e riagganciai.
Poggiai le spalle alla parete e mi lasciai scivolare fino a terra: sotto gli occhi la mia casa sottosopra!
Com'era possibile che fossi stata capace di combinare quel disastro? Eppure l’avevo fatto, ricordavo ogni singolo gesto dettato dalla rabbia, ogni oggetto infranto, ogni pulsazione del mio essere in preda allo slancio distruttivo. E alla fine cosa avevo fatto? Mi ero disposta al centro della mia opera, tutta dolorante, e mi ero addormentata.
C’erano fogli di libri e quaderni strappati sparsi ovunque, bicchieri, tazze e piatti sbriciolati, mobili danneggiati e, quelli che non erano danneggiati, non erano al loro posto, come le sedie che erano finite tutte a gambe all'aria.
Cosa diavolo mi era preso? Ero una creatrice non una distruttrice! Guardai le mie tele a terra, tutte distrutte, tagliate, sfondate.
Qual era il limite tra il creare e il distruggere? Spesso nella mia testa si confondevano e, per poter creare, avevo bisogno di radere al suolo tutto il mio mondo.
Ecco cos'era successo la sera prima, un sabato come tanti, a casa da sola come al solito. Avevo preso il pennello in mano e l’avevo fissato inebetita per un tempo indeterminato, proprio come ora contemplavo ciò che restava delle mie cose; subito dopo, invece di intingerlo nel colore, mi ero ritrovata a spezzarlo in due parti. Poi avevo sbattuto per terra la tela che si trovava sul cavalletto… E così via in una colata libera di rabbia emersa da chissà quali profondità, una rabbia primitiva, devastante, esaurita la quale, mi ero ritrovata al centro della spirale dei cocci della mia vita, senza più un briciolo di forza.
Accesi una sigaretta dopo aver ripescato il pacchetto da sotto un mucchio di vestiti, precedentemente lavati e stirati, eppure gettati a terra come un cumulo di stracci. Mi fecero pensare che non potevo permettermi di fare la stessa fine, perché non ci sarebbero state delle braccia caritatevoli a tirarmi su; non avrei avuto nessuno lì pronto a porre rimedio alle spiegazzature. No, proprio non potevo permettermelo!
Per l’ennesima volta prendevo la rincorsa, mi precipitavo a perdifiato e con gli occhi chiusi verso il baratro e, sull'orlo del precipizio, mi arrestavo. Avevo dato un’occhiata giù, come tante volte, per poi voltare le spalle e tornare indietro, fino al punto da dove avrei potuto prendere di nuovo la rincorsa.
Finii la sigaretta e mi tirai su. Raccolsi il posacenere, e dopo quello raccolsi i vestiti sparsi ovunque, poi rimisi al loro posto i libri e quei quaderni di appunti che si erano salvati. Pezzo dopo pezzo rimisi in ordine il mio appartamento devastato e riempii due sacchi della spazzatura di oggetti irrimediabilmente danneggiati.
Fuori aveva iniziato a piovere da un po’; guardai la strada sotto la mia finestra che, a una prima occhiata, mi era sembrata deserta. Ben presto, però, mi resi conto di due ragazzi che attraversavano tranquillamente, tenendosi sotto braccio. Due folli o due innamorati? Secondo alcuni la differenza era nulla. Pensai che io, folle per amore, non lo ero mai stata e, forse, mai avrei sperimentato un simile stato di grazia. Probabilmente non ero predisposta all'amore, perché l’amore è una forma di sovrabbondanza e, a me, mancava l’essenziale. Senza accorgermene avevo scarabocchiato dei cuoricini con le dita sui vetri appannati dall'umidità: cancellai tutto col palmo della mano ed andai a recuperare l’unica tela bianca che era rimasta intatta; la posizionai sul cavalletto e la osservai in piedi a braccia incrociate, in attesa che da quel bianco emergesse la figura che stavo cercando. Lo spazio prese forma: non una figura nello spazio ma dello spazio, che esigeva di venire alla luce. Lasciai che si cullasse ancora un po’ nella mia testa perché, intanto, mi era tornata in mente la voce di mia madre che m’intimava di andare a fare colazione.
Tirai fuori il latte dal frigo (che fortuna che non fosse finito ad imbiancare le pareti!) e con esso quanto di più dolce fosse rimasto in dispensa: volevo provare a creare artificialmente quella sovrabbondanza d’amore di sé che mi avrebbe permesso di amare anche gli altri. L’artificialità è decisamente sottovalutata, può rivelarsi una delle cose più piacevoli che esistano.
La colazione a base di zuccheri durò a lungo e, quando ebbi finito, notai che la pioggia cadeva ormai esausta e stava per cedere il passo ad un timido sole. Pensai che nel pomeriggio sarei potuta uscire, contrariamente ad ogni proposito di reclusione, tanto più che avevo bisogno di ricomprare il materiale che avevo fatto a pezzi.
Possibilità su possibilità mi si accumularono nella testa, come accadeva sempre dopo uno dei miei momenti distruttivi: era come svuotarsi, fare piazza pulita di tutto e lasciare, quindi, uno spazio vuoto che accogliesse tutte quelle possibilità.
Il vuoto, nella mia testa, era potenza pura e i miei atti distruttivi, che miravano a crearlo, non erano null'altro che una malcelata volontà di potenza.
Dipingevo spazi vuoti dopo essermi svuotata, dipingevo la possibilità e mai il mero residuo attuale di tale possibilità.
Messe da parte le considerazioni di ordine filosofico, mi sistemai per bene, indossai l’impermeabile ed uscii subito, chiudendomi la porta di casa dietro le spalle.

venerdì 22 marzo 2013

Bugie senza colpa: quinto risveglio



QUINTO RISVEGLIO

Finii per svegliarmi al ritmo incalzante delle gocce d’acqua che tamburellavano sul tettuccio dell’auto: tanti piccoli tamburi tribali! E se fuori il rumore ricordava quello di una serie di bonghi regolarmente percossi, nella mia testa c’era un’intera orchestra scoordinata. Sentivo le tempie pulsarmi e l’alcool della sera prima mi aveva lasciato un pessimo sapore in bocca. Ero al posto di guida e mi piegai in avanti fino a toccare il volante con la testa.
Fu a quel punto che mi accorsi della tipa che dormiva scomposta sul sedile di fianco; la guardai bene: lunghi capelli di un castano chiarissimo, una bocca con labbra sottili dalla quale colava un rivolo di saliva, trucco devastato, vestiti stropicciati…
Chi cavolo era quella?!
Mi passai le mani tra i capelli che trovai completamente induriti dal gel della sera prima: avevo assolutamente bisogno di una doccia!
Dopo qualche minuto di riflessione mi decisi a svegliare la ragazza che ronfava della grossa sul sedile del passeggero ma, non appena la toccai, cacciò un urlo stridulo e fece un balzo tale che per poco non si schiantò con la testa contro il tettuccio dell’auto.
- Ehi! Stai tranquilla! – le urlai con le mani alzate, al fine di dimostrare tutte le mie buone intenzioni.
- Tu chi sei? – mi urlò per tutta risposta.
- Visto che questa è la mia auto questa domanda dovrei farla io a te, non credi?
Tacque.
- Che ci fai nella mia macchina? Non ti ho… incontrata ieri in quel locale, vero?
- Non mi sembra di averti visto lì – rispose lei, come a voler confermare che lì c’era stata anche lei in effetti.
- Ho capito. Quindi com’è andata?
- Beh, ti ho visto che dormivi in auto, l’auto era aperta e ho pensato che non avrei dato fastidio se mi fossi messa a dormire un po’ anch’io…
- Ah, ecco… - risposi con non poca perplessità; tuttavia avevo fretta di tornare a casa e rilassarmi, quindi misi a tacere i miei dubbi, presi per buone le sue risposte e le chiesi dove abitasse per accompagnarla a casa. Mi rispose indicando la palazzina di fronte al locale davanti al quale eravamo parcheggiati. La perplessità tornò di nuovo a bussare alle porte della mia testa.
- Vuoi che ti porti in braccio fino a casa allora? – le domandai ironicamente.
Ignoravo che, quando le giornate iniziano in maniera assurda, tutto sembra volto poi a confermare quell’assurdità: la ragazza fece cenno di sì con la testa.
Scoppiai a ridere, dopodiché scesi e andai ad aprirle lo sportello, stiracchiandomi sotto la pioggia battente mentre facevo il giro della macchina.
- Non credo che riuscirei a portarti in braccio fino a casa, sono fuori allenamento… Però posso portarti sotto braccio eh!
A quel punto si decise a prendere la mano che le stavo porgendo e scese; in piedi sembrava più piccola di quanto non fosse apparsa ad una prima occhiata in macchina.
Mi prese effettivamente sotto braccio e attraversammo la strada, incuranti della pioggia che continuava a cadere.
- Ieri sera ho abbandonato la mia migliore amica ad una festa per seguire un ragazzo nel locale qui di fronte – mi disse senza alcun preavviso e senza che io le avessi chiesto nulla.
La incitai a continuare.
- Ho provato a chiamarla ma non risponde al cellulare. Ora sono delusa perché il ragazzo mi ha piantata in asso a metà serata e mi sento in colpa perché non so che fine abbia fatto la mia amica.
Ho l’abitudine della sincerità: brutto vizio in certi contesti!
- Direi che ti sei comportata da schifo!
Corrugò la fronte e cambiò tono.
- Lo so! Non c’era bisogno che me lo dicessi anche tu!
- Non te la prendere, ti volevo mettere di fronte alla realtà. Ѐ probabile che la tua amica sia incazzata di brutto a quest’ora e che per questo non risponda al telefono.
- Ѐ probabile – rispose con un tono già mutato, mentre entravamo nella palazzina dove abitava, bagnati per tre quarti.
L’ascensore probabilmente era rotto, perché prese a salire lentamente le scale senza neppure guardarlo: scale anonime, contornate da pareti grigiastre, come si addice ad un luogo di transito che si rispetti, un luogo dove nessuno vorrebbe restare più a lungo dello stretto indispensabile.
Salivo, e intanto mi chiedevo come fosse potuto accadere che, appena sveglio, mi fossi lasciato coinvolgere in quella faccenda surreale. Salivamo, e sembravamo due anziani pieni di dolori, tanto che pensai che forse sarebbe stato più semplice se l’avessi portata a casa in braccio per davvero.
- A che piano abiti?
- Secondo.
Tirai un sospiro di sollievo: quelle scale sembravano allungarsi ad ogni passo e, se mi avesse detto di abitare al quarto o quinto piano, l’avrei mollata lì a continuare da sola quella solenne ascesa, per fuggire il più lontano possibile; ma, arrivati a metà percorso, si fermò.
- Meglio se ci salutiamo qui, tra poco dovrò vedermela con i miei genitori, che ti assicuro saranno molto più incazzati della mia amica!
- Come preferisci – le risposi, cercando di assumere un’espressione contrita, mentre dentro, in realtà, fui più che sollevato.
Lei riprese la salita, io aspettai qualche secondo e poi mi precipitai giù, saltando due gradini per volta.
Uscendo in strada, sotto una pioggia più leggera, pensai che non le avevo neppure chiesto come si chiamasse; subito dopo, come in un battibecco con me stesso, mi dissi che neppure mi interessava saperlo in fondo.
Nell’atteggiamento di quella ragazza avevo letto una vena di squilibrio che m’inquietava non poco: la cosa mi spaventava, tuttavia mi spavantava ancora di più il fatto che, quella stessa vena, avesse suscitato su due piedi la mia simpatia. Generalmente, quando fuggiamo, lo facciamo da qualcosa che abbiamo dentro, dal riflesso esterno di qualcosa che abbiamo dentro per la precisione.
Saltai in macchina e, prima di mettere in moto, lanciai un’occhiata al sedile vuoto. Per sicurezza guardai anche i sedili posteriori: ormai mi aspettavo qualsiasi cosa!
Di fronte al vuoto risi di me stesso e partii.

giovedì 21 marzo 2013

Bugie senza colpa: quarto risveglio


QUARTO RISVEGLIO

Mi sentii punzecchiata ripetutamente, prima ad un braccio, poi ad una guancia, sempre più forte.
- Cosa ci fai nella mia casetta?- sentenziò, a mo’ di rimprovero, la bambina china su di me non appena aprii gli occhi.
Ero raggomitolata a terra, tutta infreddolita e, il primo istinto, appena sveglia, fu quello di stringermi ancora di più su me stessa e proteggermi il volto con le braccia. Quando vidi che la bambina non accennava a smuoversi dalla sua posizione di giudice, con le braccia strette intorno alle ginocchia, in attesa della mia risposta, mi tirai su e mi misi seduta. Alzarmi in piedi non potevo perché la casetta era troppo bassa; era uno di quei giocattoli a misura di bambino, tutta in plastica e posizionata al centro del giardino.
La sera prima ero fuggita dal caos di una festa organizzata dalla sorella maggiore della bambina che adesso mi stava davanti, mi ero rifugiata in quella casetta e mi ci ero addormentata.
- Perché non mi rispondi?
- Perché mi sono appena svegliata…
Mi guardò con aria sospetta e non sembrava affatto soddisfatta della mia risposta.
- Stai tranquilla, me ne vado subito – aggiunsi per rispondere alla sua titubanza.
Raccolsi i miei occhiali da terra e afferrai la borsa che mi aveva fatto da cuscino; la bambina mi lasciò uscire gattonando dal suo territorio e fu in quel momento che mi resi conto che era già giorno. Imprecai contro me stessa ed iniziai a correre; la bambina prese subito ad inseguirmi gridando ed agitando il mio cellulare tra le mani: feci retromarcia, recuperai il telefonino e ripartii lasciando in una certa confusione la bimba.
Mentre correvo, cercai di ricostruire la giornata precedente.
Ero stata invitata a quella stupida festicciola a casa di una mia compagna di classe, festicciola alla quale non avevo la minima intenzione di partecipare; la mia migliore amica, però, aveva insistito affinché ci andassi, perché, senza di me, sarebbe saltata la possibilità di propinare una scusa credibile ai suoi e, con essa, l’occasione di vedere il ragazzo che le piaceva.
Com'era prevedibile, dopo mezz'ora, mi ero ritrovata da sola nel caos più totale, ad osservare il tutto dal mio angolino; dopo un’ora, neppure l’angolino mi era sembrato più tanto adatto al mio pessimo umore ed ero uscita in giardino, dove avevo notato la casetta di plastica. Da piccola avevo sempre desiderato un rifugio del genere, senza mai riuscire ad ottenerlo, quindi, senza pensarci due volte, mi ero avvicinata, chinata e, carponi, ero riuscita ad entrare dalla porta senza incastrarmi: era abbastanza spaziosa dentro ma non troppo alta, dunque mi ero rannicchiata e lì mi ero addormentata.
Che diavolo mi era saltato in mente? E perché la mia amica non era venuta a cercarmi? Non fosse stato per la bambina, chissà per quanto tempo ancora sarei rimasta a dormire lì dentro!
Non sarei mai arrivata a casa a piedi, quindi decisi, mentre notavo con preoccupazione le varie chiamate perse sul cellulare, di prendere l’autobus che sarebbe passato di lì a cinque minuti.
Corsi a perdifiato per raggiungere in tempo la fermata: difficilmente avrei sperimentato un risveglio altrettanto movimentato in futuro! Arrivai giusto in tempo, saltai su e rovistai nella borsa per cercare i soldi per il biglietto: ritenni quasi un miracolo il fatto di trovare al primo colpo le monete necessarie.
Sul pullman c’era solo una signora dall'aria annoiata che alzò lo sguardo quando passai vicino al suo posto. Dovevo avere un aspetto orribile, ero stanca e infreddolita e avrei dato di tutto pur di essere al caldo nel mio letto. Avrei dato ancora di più per non essere mai andata a quella stupida festa la sera prima; le odiavo le feste, non ero mai a mio agio nei luoghi affollati e rumorosi perché, dopo poco, m’intristivo e mi ritiravo nell'angolo meno in vista con la vana speranza di sparire nel nulla.
Ma la festa era acqua passata: il vero problema era che cosa avrei raccontato una volta a casa!
Pensavo proprio ad una scusa qualsiasi quando l’autobus si fermò per far salire un ragazzo minuto con una rosa stretta in una mano: la cosa era strana, ma pensai anche a quanto fosse bella quella scena di prima mattina. Avevo un’inspiegabile attrazione per gli avvenimenti inusuali: dormire nella casetta era stato un gesto sciocco, bizzarro ma, in fondo, bello nella sua stranezza.
Il ragazzo scese alla fermata prima della mia, proprio nei pressi dell’abitazione della più antipatica tra le mie compagne di classe e, se quella rosa era destinata a lei, pensai, era decisamente sprecata!
Scesi dopo dieci minuti e, nonostante la stanchezza, forse per ritardare il momento dell’impatto con la mia famiglia, non presi l’ascensore e risalii lentamente le scale, fino al terzo piano, dove abitavo.
Cercai di non far rumore entrando ma, la prima cosa che notai, appena dentro, fu lo sguardo infuocato di mia madre, seduta al tavolo della cucina, con un’enorme tazza di caffè tra le mani.
- Meno male che alla festa non ci volevi andare! – disse con tutto il sarcasmo di cui fu capace.
– Si può sapere dove hai dormito? Ammesso che tu abbia dormito! – aggiunse.
Decisi in quel momento, su due piedi, di essere sincera.
– Ho dormito - risposi abbassando gli occhi, consapevole del fatto che lei, invece, aveva passato la notte in bianco.
- E dove, di grazia?
- A casa della mia compagna… quella della festa… Mi sono addormentata nella casetta della sorellina, nel giardino…
La cosa doveva sembrare abbastanza assurda, talmente assurda che probabilmente mia madre mi credette subito. Scoppiò a ridere.
- Sarà anche vero- disse continuando a ridere – ma per la notte in bianco giuro che me la paghi!
Mi si avvicinò, mi tolse un filo d’erba dai capelli arruffati e, dopo averlo lasciato cadere, mi diede un buffetto sulla stessa guancia che la bambina mi aveva punzecchiato col dito facendomi svegliare.
- Sai che ti dico? Io me ne torno a letto! Ci penserò dopo ad una punizione esemplare per te, signorina! Sono sicura che a mente fresca mi verranno molte più idee…
La guardai andarsene in camera, ondeggiando nella sua vestaglia bianca. Quando chiuse la porta, in casa fu il silenzio più totale; mio padre e mio fratello con ogni probabilità dormivano ancora profondamente.
Mi tolsi le scarpe nere di tela e le portai in mano fino in camera per posarle a terra solo davanti a ciò che più avevo desiderato da quando avevo aperto gli occhi: il mio letto. Non persi tempo neppure per spogliarmi, m’infilai direttamente sotto le coperte, assumendo la stessa posizione che avevo assunto nella casetta durante la notte e così mi addormentai come un sasso. 

mercoledì 20 marzo 2013

Bugie senza colpa: terzo risveglio


TERZO RISVEGLIO

Quando il trillo prolungato e lacerante della sveglia mi ferì le orecchie, allungai una mano sul comodino ma, ovviamente, non trovai nulla: la sera prima l’avevo preventivamente posizionata lontano dal letto al fine di costringermi ad alzarmi per poterla spegnere.
Le studiavo tutte per fregarmi da solo, perché il me stesso della mattina era un altro, un tizio inaffidabile che avrebbe fatto di tutto pur di non alzarsi dal letto, anche scaraventare la sveglia contro il muro, com'era già accaduto un paio di volte! Dovevo fregare me stesso ed alzarmi prima di iniziare a pensare troppo, prima che il mio cervello si fissasse sull'apparente assurdità della motivazione per la quale mi alzavo ogni mattina prima del dovuto, due ore prima della scuola, anche di domenica, anche con la pioggia o con la neve.
Saltai giù dal letto e corsi a spegnere la maledetta sveglia.
Uscendo dalla mia camera incrociai mio padre che si dirigeva, ancora mezzo addormentato, verso il bagno.
- Vorrei capire perché anche di domenica…- disse con aria di rassegnazione.
- Senso del dovere! – risposi, battendolo sul tempo e chiudendomi in bagno prima di lui.
Quando uscii, vidi dalla finestra le prime luci del giorno e la cosa mi diede coraggio: tornai saltellando in camera mia e mi vestii; guardai la rosa rossa nel vaso sulla scrivania per qualche secondo prima di prenderla delicatamente tra le mani e legarci, con un nastrino rosso anch’esso, il solito bigliettino sul quale scrissi il numero centoventitré. Questo significava una cosa ben precisa e cioè che quello era il centoventitreesimo giorno che mi alzavo alle sei di mattina per posare la stessa rosa (o almeno una sempre uguale) sulla finestra della stessa persona. E mi sentivo fortunato per il fatto che abitasse al piano terra e non mi fosse toccata in sorte anche la scalata!
Quando alzai lo sguardo, mi ritrovai ad osservare la mia immagine riflessa nel piccolo specchio appeso alla parete: avevo troppi brufoli sulla faccia, coperti appena da una peluria che non si decideva a diventare vera a propria barba, nonostante i miei diciotto anni. Mi sentivo troppo basso, troppo magro e sgraziato ed erano forse queste le ragioni per cui non avevo mai firmato i miei bigliettini sul davanzale. Se lei sapesse o no, lo ignoravo, fatto sta che, quando mi vedeva più tardi, a scuola, a stento mi salutava; ma io continuavo, mi ripetevo ogni mattina che l’amore non dipendeva dall'essere corrisposto o meno, l’amore era indipendente da queste cose, l’amore voleva solo amare, nient’altro… Questo mi ripetevo!
Uscii con la rosa tra le mani e in dieci minuti raggiunsi la fermata dell’autobus che passò quasi subito; com'era prevedibile a quell'ora, di domenica mattina, era quasi vuoto, fatta eccezione per una signora sulla cinquantina e una ragazza con gli occhiali che sembrava particolarmente assonnata.
Mi sedetti ai primi posti: sarei sceso di lì a un quarto d’ora e non ebbi il tempo di rilassarmi.
Scesi e mi incamminai sotto il cielo che, come mi accorsi solo allora, prometteva pioggia; la cosa non mi demoralizzò più di tanto e in pochi minuti arrivai a destinazione.
Già da lontano notai che c’era qualcosa di diverso, nel senso che sul davanzale, dove avrei dovuto mettere la solita rosa, c’era una busta gialla in bella vista.
Mi avvicinai, con le gambe che mi tremavano, e presi in mano la busta. Me la rigirai tra le dita, incurante del fatto che qualcuno potesse vedermi: in genere posavo la rosa e me la davo a gambe.
Aprii e tirai fuori il foglio ripiegato che c’era all'interno. Lessi: RISPARMIATI LE ROSE. NON MI INTERESSI!
Era scritto in stampatello maiuscolo con un pennarello nero ed occupava tutto il foglio.
Restai lì incredulo e rilessi più volte lo stesso messaggio chiaro e stringato.
- Vaffanculo! – pensai. Poi lo dissi anche ad alta voce, appallottolando rabbiosamente quel foglio insieme alla busta gialla. Buttai la palla di carta per terra e corsi via con la mia rosa ancora stretta nel pugno.
Centoventitré giorni! Centoventitré giorni della mia vita ad alzarmi alle sei per poi ricevere quella risposta! L’amore vuole solo amare e non ha la necessità di essere ricambiato, mi ripetei per la seconda volta quel giorno, e per la seconda volta dissi - Vaffanculo!
M’inoltrai tra le case del centro fino a raggiungere, senza nemmeno accorgermene, un parco con delle panchine, dove mi sedetti e trascorsi le ore successive. Sì, le ore, perché restai lì a pensare almeno tre ore, fino a quando non caddero le prime gocce di pioggia ed io mi decisi ad alzarmi, spezzando in due, nello stesso momento, la rosa che per tutto il tempo avevo tenuto tra le mani. La infilai nel primo cestino quando la pioggia già iniziava a battere più forte.
Uscii dal parco e mi ritrovai in pieno centro, tra la gente che scappava in cerca di un riparo o, in alternativa, apriva gli ombrelli; io appartenevo alla prima categoria, perché non avevo assolutamente pensato di portarmi dietro un ombrello.
Iniziai a correre senza sapere dove stessi andando esattamente e rallentai solamente di fronte ad una scena curiosa. C’era una ragazza, lì, in mezzo a tutta quella gente che correva, che sembrava godersi la pioggia senza troppi problemi: stava lì ferma con un libro in mano ed era già quasi tutta bagnata, come me d'altronde.
Per qualche assurdo motivo mi passò un pensiero per la mente: non avrei dovuto buttare la rosa! Se non l’avessi buttata, l’avrei potuta dare alla ragazza della pioggia, della quale, per un brevissimo istante, incrociai lo sguardo. Senza accorgermene mi ero addirittura fermato: due mondi immobili sotto una cascata d’acqua e tutta una serie di proiettili umani, sparati intorno a noi, che quella cascata d’acqua cercavano di evitarla ad ogni costo.
Sorrisi senza motivo per poi ridiventare anch'io uno di quei proiettili alla ricerca di un riparo; lo trovai, dopo un paio di minuti, sotto il terrazzino di una casa e restai lì fin quando la pioggia non divenne più sottile. A quel punto mi avviai alla fermata del pullman per tornarmene a casa mentre quella leggera pioggerella continuava ad entrarmi nelle ossa: mi stava raffreddando il cuore in qualche modo, lo sentivo e sentivo anche che, in quel momento, era come una benedizione.
Completamente fradicio salii sull'autobus e, arrivato a casa, mi spogliai e mi feci una doccia calda per scongelarmi i muscoli e il cervello; feci tutto con molta calma, nonostante fosse quasi ora di pranzo.
Una volta asciutto e vestito, invece di andare a tavola, me ne tornai in camera e mi misi a letto, perché avevo molte ore di sonno da recuperare, per non parlare delle ore di vita!

martedì 19 marzo 2013

Bugie senza colpa: secondo risveglio


SECONDO RISVEGLIO

Avete presente la sensazione che si ha quando si è fermamente convinti che tutto possa accadere? Si percepisce il mondo circostante come gravido di possibilità che stanno lì ad attendere solo noi; ci basta fare un passo ed esse sono là! 
Ebbene quella mattina, distesa supina nel mio letto tiepido, era quella la sensazione che provavo, così come l’avevo provata il giorno prima e il giorno prima ancora. Tuttavia mi bastò mettere i piedi fuori dal letto, fare quel passo decisivo verso la realtà, che tutto svanì, come prometteva quell'altra sensazione, quella latente, che anticipava già la delusione alla quale andavo incontro. Tutto, come sempre, avvenne nel giro di due secondi; solo la mia spiccata vista interiore mi permise di cogliere il passaggio da una sensazione all'altra e di chiedermi, come ogni mattina, come fosse possibile una cosa del genere.
Potrei descrivere la mia vita fino ad oggi in questi termini: una serie di tentativi di recuperare quella sensazione che il mattino m’invade il corpo e la mente, prima che la realtà faccia la sua violenta comparsa, tutti tentativi (è quasi superfluo dirlo!) rigorosamente falliti!
Alzandomi dal letto cercai di fare il meno rumore possibile per non svegliare mia sorella, che dormiva nel letto accanto al mio.
Mi ricordai che era domenica e mi ricordai anche quanto odiassi la domenica.
Durante la settimana l’università impegnava la maggior parte del mio tempo e quindi, teoricamente, il fine settimana avrebbe dovuto rendermi più allegra: nulla di più lontano dal vero, perché il fine settimana mi rendeva incredibilmente irritabile, per il semplice fatto che non sarei mai riuscita a fare in quei due giorni, tutto ciò che, per mancanza di tempo,  avevo rimandato durante la settimana.
Mi vestii velocemente, come se avessi avuto un impegno di lì a poco, ma, invece di uscire, ricoprii di libri il tavolo della cucina, divertendomi, poi, a costruire una piccola montagna mettendoli uno sull’altro: quello era il lavoro che mi aspettava per i prossimi esami. Avvertii un leggero senso di ansia e la piccola catasta di libri sembrò crescere sotto il mio naso. Per evitare che l’ansia crescesse aprii subito il libro più grosso, uno di quelli di storia, e misi da parte tutti gli altri.
Lessi pazientemente di battaglie ed alleanze, rivolte e repressioni per due ore circa, dopo di che mi bloccai e la mia mente prese a vagare da tutt’altra parte; quando succedeva, riprendere le redini della mia attenzione era praticamente impossibile. La mia mente era così: una bestia indisciplinata, incapace di prostrarsi troppo a lungo di fronte alla volontà. Sfogliai il libro per vedere quanto mancasse alla fine del capitolo e finii per chiuderlo e alzarmi dalla mia postazione di studio.
Lanciai un’occhiata fuori dalla finestra, mentre il resto della famiglia iniziava ad invadere il territorio che, fino a quel momento, era stato solo mio; le nuvole all’orizzonte non promettevano certo una giornata calda e assolata, ma avevo bisogno di uscire, fuggire più che altro, anche se non sapevo da cosa.
Prima di ripensarci, mi precipitai giù per le scale di casa con destinazione il centro della città. C’erano poche macchine in giro, gente a piedi, come me, ancora meno.
Con le mani affondate nelle tasche dei jeans, mi guardavo intorno e, a chi mi vedeva dall’esterno, dovevo dare tutta l’impressione di essere alla ricerca di qualcuno o di qualcosa. Dopo qualche minuto ebbi davvero quella sensazione, cioè di aspettare qualcuno, qualcosa o qualcuno che facesse succedere qualcosa… Insomma ero in attesa ed ero uscita di casa per andare incontro a quello che attendevo. Mi accorsi di essermi fermata troppo a lungo e che qualcuno iniziava a guardarmi incuriosito; ripresi quindi la mia marcia con gli occhi bassi e le mani strette a pugno nelle tasche. Accelerai come non avrei fatto neppure se avessi avuto un treno da prendere e, per poco, non investii un anziano signore con tanto di bastone: riuscii a deviare all’ultimo secondo senza che il vecchietto baffuto se ne accorgesse. Non sapevo proprio per quale motivo stessi lì a trottare, quindi decisi di crearmene uno al momento; entrai in una libreria (avevo lasciato i libri per tornare ai libri) e mi sembrò che la campanella della porta facesse troppo rumore.
Quando fui dentro, iniziai ad aggirarmi tra gli scaffali alla ricerca dei classici e, solo dopo qualche minuto, comparve da chissà dove un ragazzo con la barba; aveva un’aria avvilita o almeno così mi sembrò.
- Posso aiutarti?
Fui colta alla sprovvista, perché per qualche assurdo motivo non mi aspettavo che parlasse. Restai per qualche istante a bocca aperta e, probabilmente, dovetti sembrare un tipo alquanto originale, tanto che, dopo un po’, il ragazzo non riuscì a trattenere un leggero risolino. Mi accorsi che, in qualche modo, ero riuscita a fargli cambiare umore e ne fui lieta.
- Ti ringrazio ma non so ancora cosa sto cercando.
Rise ancora di più, senza rendersi conto della serietà della mia risposta. Per non deludere le sue aspettative gli sorrisi e tornai ad interessarmi ai libri che, probabilmente, lo stesso ragazzo aveva disposto ordinatamente, accostando quelli del medesimo autore.
- I classici sono da quella parte comunque – mi disse senza che io gli avessi chiesto nulla.
- Come fai ad essere sicuro che cerco la sezione classici?
- O cerchi i classici della letteratura o quelli della filosofia: la faccia non lascia dubbi!
Scoppiai a ridere e presi, senza pensarci troppo, un libro di Dostoevskij, uno di quelli non eccessivamente grossi. Lo posai sul bancone, dove il ragazzo mi ci infilò dentro un segnalibro, e pagai. Lui mi mise il libro in una bustina e, porgendomela, mi disse – Buona lettura e torna a trovarci!
Prendendo la busta dalle sue mani gliele sfiorai involontariamente e notai il contrasto tra il suo calore e la mia freddezza.
Uscii e mi avviai a casa più lentamente di quanto non me ne fossi allontanata: non avevo fretta di tornarci in effetti.
Strada facendo aprii il libro che avevo appena comprato e sfogliai le pagine, apprezzandone la consistenza. Mentre tornavo alla prima pagina, una goccia d’acqua cadde tra le parole e, subito dopo, ne cadde un’altra e poi un’altra ancora. Chiusi il libro e guardai il cielo; rapidamente il ritmo della pioggia aumentò, mi bagnò il volto, i capelli, i vestiti, m’inzuppò rapidamente, senza che io avessi la forza né la volontà di muovermi di lì.
Mi resi conto, d’un tratto, che non mi muovevo perché era proprio quello che avevo atteso, era quella pioggia ciò a cui ero andata incontro con tanta fretta. Fino a quel momento avevo atteso la pioggia.

lunedì 18 marzo 2013

Bugie senza colpa: primo risveglio

Sono sempre stata una con molta immaginazione, già da bambina, forse perché non sono mai stata pienamente soddisfatta della realtà, perché il mondo reale semplicemente non mi bastava prima e ancor meno mi basta adesso. In fondo non amo se non quello che non posso vedere. 
So bene che al mondo tutti mentono ed essendo umana mi sono dovuta piegare alla menzogna, tuttavia ho scelto la meno dannosa per gli altri: inventare mondi, quei mondi che a volte penso di scorgere nelle persone e nelle cose e che, per lo più, restano lì in attesa di qualcuno che sappia inventare la loro storia. Non dico di saperlo fare, non dico di essere io quella che attendevano, perché si sa che, a dar voce all'altro da sé, si finisce col soffocarlo sotto una coltre di parole proprie. E sta qui l'inganno, perché la voce che si riesce a tirar fuori non è meno altrui che nostra, perché noi stessi nel pronunciare le parole ci siamo fatti altro. Gran bel gioco, perfetta bugia senza colpa!
E proprio oggi mi è venuta voglia di render pubbliche un po' di bugie senza colpa, sette per la precisione, una al giorno se mi sarà possibile. Risalgono a qualche tempo fa...


PRIMO RISVEGLIO 

Sognai di essere nel labirinto ma non ero Teseo. Le pareti erano inverosimilmente bianche e lucide: era un labirinto e un ospedale allo stesso tempo. 

Avanzavo lentamente, in attesa che il mostro saltasse fuori da dietro l’angolo, uno dei tanti angoli che avevo incontrato; ma in quel labirinto ero solo. 
Mi trovai di fronte un lungo corridoio che terminava in una biforcazione: svoltai a sinistra e mi trovai di fronte la mia stessa immagine, riflessa in uno specchio che copriva tutta la parete. Vidi il mostro: vidi me stesso riflesso.
Mi svegliai, soffocando appena un urlo che avrebbe svegliato mezzo vicinato. Mi massaggiai la fronte sudata e poi gli occhi: al tatto il mio volto sembrava ancora il mio. Era la terza o quarta volta che sognavo me stesso come mostro e nella mia mente iniziavano a delinearsi le cause di quei sogni: sensi di colpa accumulati nel tempo. 
Guardai l’orologio e mi resi conto che era troppo presto per andare a lavoro ma anche troppo tardi per tornare a dormire come Dio comanda. Saltai giù dal letto, andai a farmi una doccia e, per una forma di autopunizione, quando mi trovai di fronte all'armadio aperto, tra le tante maglie, scelsi di indossare la felpa che mi aveva regalato la mia ex, uno degli ultimi regali. 
Finii di vestirmi e trascorsi il tempo che restava, prima di dover uscire di casa, seduto sul letto a pensare.
Alle otto e trenta, come se fosse trascorso un minuto e non un’ora, mi alzai, presi il casco e scesi in garage per prendere lo scooter.
Lavoravo in una libreria in centro e di lì transitavano decine, a volte centinaia di persone al giorno; avevo imparato a capire che genere di libri mi avrebbero chiesto in base a dettagli apparentemente insignificanti. C’erano, ad esempio, persone che avevano la faccia da lettori di classici e ben poche volte queste stesse persone si erano rivolte a me chiedendo dell’ultimo best seller. 
C’erano, poi, i filosofi, una sottocategoria del precedente gruppo, che, quasi sempre, chiedevano di libri dal titolo impronunciabile. 
Un'altra categoria era quella dei lettori leggeri che non leggevano nulla che superasse le centocinquanta.
Alle nove in punto aprii, prima che arrivassero i miei colleghi; sebbene fossi l’ultimo arrivato, ero quello che abitava più vicino alla libreria, quindi mi avevano affidato le chiavi quasi subito.
Iniziai immediatamente a darmi da fare con i nuovi arrivi, quando sentii la campanella sulla porta suonare: qualcuno era entrato mentre ero chino dietro uno degli scaffali. Rimisi i libri nello scatolone che era servito per il trasporto e andai ad accogliere il primo cliente della giornata. Non feci in tempo a dire buongiorno perché la voce mi morì in gola: in piedi, a pochi metri da me, c’era la mia ex, esattamente come la ricordavo. Lei sembrava stupita quanto me perché, evidentemente, non sapeva che lavorassi lì; infatti, avevo iniziato col nuovo impiego solo da un paio di mesi, cioè dopo che ne erano trascorsi sei dalla rottura del nostro fidanzamento. 
Feci una serie di rapidi calcoli: da quando non ci vedevamo? Mi grattai una guancia ricoperta da una folta barba (ecco: l’ultima volta che c’eravamo visti non avevo la barba) e poi tentai di accennare un saluto molto imbarazzato.
Lei continuò a restare impassibile, lei col suo cappottino rosso che le arrivava a cinque centimetri dalle ginocchia, lei col suo basco che la faceva assomigliare ad una francesina troppo snob per uno come me. Eppure ero stato io a lasciarla, a battere in ritirata.
Finalmente lei si mosse, facendo qualche passo in avanti rapido e nervoso, e disse contemporaneamente il titolo del libro che le occorreva. 
Fu un sollievo, sebbene il tono fosse di una freddezza volutamente accentuata. Fui stupidamente felice di annunciarle che il libro che cercava era già in negozio e, mentre mi dirigevo allo scaffale sul quale ricordavo di averlo riposto, mi vidi riflesso nella vetrina con la felpa che mi aveva regalato proprio la mia ex. Maledii me stesso e fui assalito dall’imbarazzo più profondo; perché avevo deciso di indossare proprio quella maglia e proprio quel giorno? Con un sospiro profondo mi chinai per prendere il libro: dal sogno di quella notte avrei dovuto capire che la giornata non sarebbe stata delle migliori!
Cercai di tornare con la mente al periodo della crisi con la ragazza che adesso aspettava di là il libro che io tenevo tra le mani; per qualche assurdo motivo, le cause per cui l’avevo lasciata, che allora mi erano sembrate tanto serie, le sue colpe che mi erano apparse tanto gravi, ora non mi tornavano più alla memoria. Pensai seriamente che, con ogni probabilità, la crisi era stata solo mia ed era stata successivamente estesa al mondo intero. E a cosa mi serviva adesso quella consapevolezza? Per chiedere scusa era troppo tardi, io stesso mi sarei scoppiato a ridere in faccia di fronte ad una richiesta di scuse e dopo mi sarei preso a calci.
Quando tornai col libro, lei era ancora lì, in apparenza distratta, ma io lo sapevo benissimo a cosa stava pensando: all'assurdità di quelle coincidenze. Lei, però, era stoica e cercava di apparire impassibile a tutti i costi; quell'impassibilità, in tempi di crisi, era stata uno dei capi d’accusa ai quali mi ero appigliato per giustificare la mia crudeltà nel lasciarla di punto in bianco. E adesso succedeva che proprio quell'aria composta mi attirasse inspiegabilmente. Non appena lei posò di nuovo gli occhi su di me, la campanella della porta suonò una seconda volta.
- Eccoti amore! - esclamò il ragazzo alto e biondo che sembrò non accorgersi neppure di me.
Restai come inchiodato al pavimento con il libro nella mano destra, sospeso all’altezza della spalla. 
Lei sorriese al ragazzo appena entrato e gli andò incontro per baciarlo. 
- Scusa tesoro, ero venuta a chiedere di un libro - aggiunse dopo il bacio.
- E l’hai trovato questo libro? - le chiese il ragazzo che finalmente sembrò accorgersi di me che, da un lungo minuto, stavo lì impalato col libro in mano.
- L’ho trovato - mi decisi a dire al fine di affermare la mia presenza, per poi dirigermi velocemente alla cassa e svolgere quel compito che, ormai, avevo imparato a svolgere quasi meccanicamente. Alla fine, sotto gli occhi, che a me sembravano indagatori, dei due fidanzatini, misi il libro in una bustina trasparente che poggiai sul banco per evitare la possibilità del seppur minimo contatto. Nel farlo cercai di sorridere ma a ricambiare fu solo il ragazzo, evidentemente ignaro della mia identità. Lei restò seria tutto il tempo e, solo mentre si girava per andarsene, notai il lampo d’odio e di soddisfazione nei suoi occhi. Prese il fidanzato per mano ed uscì.
Attraverso il vetro della porta vidi i due che si allontanavano a passo lento. Mi sentii sollevato ma mi accorsi di essere completamente ricoperto di sudore. Nello zaino avevo una maglia di ricambio: andai in bagno, mi sfilai la felpa inzuppata di sudore e m’infilai la maglia leggera e pulita. 

domenica 17 marzo 2013

Il tempo libero della domenica

Post di una domenica col sole, che come sempre capita quando decido di non tornare a casa il fine settimana e sono quindi costretta a restarmene nelle mie quattro mura.
Sono anni che cerco il senso della domenica e ancora non l'ho trovato ed è inutile che mi si dica che è il giorno di riposo in cui uno può fare quello che gli piace, perché si tratta di una definizione abbastanza misera e deprimente visto che implica che durante la settimana, invece, non si fa quello che piace. Definizioni che contengono un mondo e una mentalità! E allora parliamo del tempo libero: da cosa e per cosa? Le risposte nascondono una gran bella gerarchia di valori: dal lavoro per il far nulla, per il divertimento. Qual è il valore tra le due opzioni? Forse, almeno la mia generazione, si avvia a rendersi conto che certe scale gerarchiche andrebbero capovolte visto che il lavoro lo cerca disperatamente e di tempo libero ne ha fin troppo...
Ma non scadiamo nella quotidianità! Di discorsi sul lavoro e il non lavoro ne abbiamo piene le scatole un po' tutti, quindi meglio che torni a fare quello che faccio il resto della settimana, senza lasciami distrarre da queste maledette domeniche! Meglio tornare alle mie parole che nascono da e mirano a quella presunta irrealtà che alberga nella mente...

giovedì 14 marzo 2013

Capacità di funzionare

Incredibile come ci si possa sentire rilassati la sera quando durante la giornata si è riusciti a combinare qualcosa di buono, quando insomma per qualche ora fortunata la noia ha fatto i bagagli per lasciare spazio ad un minimo di voglia di fare supportata da un'energia uscita da chissà dove. Dopo tutto è proprio questo che vorrei sapere: dove sono tutte le mie forze durante la maggior parte dei giorni? A volte penso di non averne, di essere priva di energia, nel senso che non sono capace di essere "en-ergon", in atto, a causa di una sostanziale natura contemplativa si direbbe; però poi saltano fuori questi giorni e mi ritrovo capace di "funzionare" come tutti gli esseri umani.

lunedì 11 marzo 2013

Respiro

Questione di respiro: quando te ne dimentichi, quando ti costa fatica mantenerlo regolare, quando semplicemente lo perdi. 
La colpa sarà di quel che ti sta intorno, o meglio del modo in cui ti colpisce quel che ti sta intorno. 
Per tre giorni non c'è stata aria che volesse restarmi nei polmoni. 
Per tre notti mi sono imposta il ritmo delle lacrime.

venerdì 1 marzo 2013

Avrei dovuto imparare a... ballare

Questa sera uno strano pensiero mi ha attraversato velocemente la testa: avrei dovuto imparare a ballare. 
Più che la mia testa forse dovrei dire che mi ha attraversato il corpo, come una voglia bizzarra che si impadronisce momentaneamente dei sensi. 
A volte non riesco ad interpretare completamente i messaggi del mio corpo, questo però mi piacerebbe capirlo per bene, prima o poi, visto che non sono mai riuscita a sciogliermi completamente in una danza improvvisata. Credo che la chiave di tutto stia nella parola "ritmo".