lunedì 18 marzo 2013

Bugie senza colpa: primo risveglio

Sono sempre stata una con molta immaginazione, già da bambina, forse perché non sono mai stata pienamente soddisfatta della realtà, perché il mondo reale semplicemente non mi bastava prima e ancor meno mi basta adesso. In fondo non amo se non quello che non posso vedere. 
So bene che al mondo tutti mentono ed essendo umana mi sono dovuta piegare alla menzogna, tuttavia ho scelto la meno dannosa per gli altri: inventare mondi, quei mondi che a volte penso di scorgere nelle persone e nelle cose e che, per lo più, restano lì in attesa di qualcuno che sappia inventare la loro storia. Non dico di saperlo fare, non dico di essere io quella che attendevano, perché si sa che, a dar voce all'altro da sé, si finisce col soffocarlo sotto una coltre di parole proprie. E sta qui l'inganno, perché la voce che si riesce a tirar fuori non è meno altrui che nostra, perché noi stessi nel pronunciare le parole ci siamo fatti altro. Gran bel gioco, perfetta bugia senza colpa!
E proprio oggi mi è venuta voglia di render pubbliche un po' di bugie senza colpa, sette per la precisione, una al giorno se mi sarà possibile. Risalgono a qualche tempo fa...


PRIMO RISVEGLIO 

Sognai di essere nel labirinto ma non ero Teseo. Le pareti erano inverosimilmente bianche e lucide: era un labirinto e un ospedale allo stesso tempo. 

Avanzavo lentamente, in attesa che il mostro saltasse fuori da dietro l’angolo, uno dei tanti angoli che avevo incontrato; ma in quel labirinto ero solo. 
Mi trovai di fronte un lungo corridoio che terminava in una biforcazione: svoltai a sinistra e mi trovai di fronte la mia stessa immagine, riflessa in uno specchio che copriva tutta la parete. Vidi il mostro: vidi me stesso riflesso.
Mi svegliai, soffocando appena un urlo che avrebbe svegliato mezzo vicinato. Mi massaggiai la fronte sudata e poi gli occhi: al tatto il mio volto sembrava ancora il mio. Era la terza o quarta volta che sognavo me stesso come mostro e nella mia mente iniziavano a delinearsi le cause di quei sogni: sensi di colpa accumulati nel tempo. 
Guardai l’orologio e mi resi conto che era troppo presto per andare a lavoro ma anche troppo tardi per tornare a dormire come Dio comanda. Saltai giù dal letto, andai a farmi una doccia e, per una forma di autopunizione, quando mi trovai di fronte all'armadio aperto, tra le tante maglie, scelsi di indossare la felpa che mi aveva regalato la mia ex, uno degli ultimi regali. 
Finii di vestirmi e trascorsi il tempo che restava, prima di dover uscire di casa, seduto sul letto a pensare.
Alle otto e trenta, come se fosse trascorso un minuto e non un’ora, mi alzai, presi il casco e scesi in garage per prendere lo scooter.
Lavoravo in una libreria in centro e di lì transitavano decine, a volte centinaia di persone al giorno; avevo imparato a capire che genere di libri mi avrebbero chiesto in base a dettagli apparentemente insignificanti. C’erano, ad esempio, persone che avevano la faccia da lettori di classici e ben poche volte queste stesse persone si erano rivolte a me chiedendo dell’ultimo best seller. 
C’erano, poi, i filosofi, una sottocategoria del precedente gruppo, che, quasi sempre, chiedevano di libri dal titolo impronunciabile. 
Un'altra categoria era quella dei lettori leggeri che non leggevano nulla che superasse le centocinquanta.
Alle nove in punto aprii, prima che arrivassero i miei colleghi; sebbene fossi l’ultimo arrivato, ero quello che abitava più vicino alla libreria, quindi mi avevano affidato le chiavi quasi subito.
Iniziai immediatamente a darmi da fare con i nuovi arrivi, quando sentii la campanella sulla porta suonare: qualcuno era entrato mentre ero chino dietro uno degli scaffali. Rimisi i libri nello scatolone che era servito per il trasporto e andai ad accogliere il primo cliente della giornata. Non feci in tempo a dire buongiorno perché la voce mi morì in gola: in piedi, a pochi metri da me, c’era la mia ex, esattamente come la ricordavo. Lei sembrava stupita quanto me perché, evidentemente, non sapeva che lavorassi lì; infatti, avevo iniziato col nuovo impiego solo da un paio di mesi, cioè dopo che ne erano trascorsi sei dalla rottura del nostro fidanzamento. 
Feci una serie di rapidi calcoli: da quando non ci vedevamo? Mi grattai una guancia ricoperta da una folta barba (ecco: l’ultima volta che c’eravamo visti non avevo la barba) e poi tentai di accennare un saluto molto imbarazzato.
Lei continuò a restare impassibile, lei col suo cappottino rosso che le arrivava a cinque centimetri dalle ginocchia, lei col suo basco che la faceva assomigliare ad una francesina troppo snob per uno come me. Eppure ero stato io a lasciarla, a battere in ritirata.
Finalmente lei si mosse, facendo qualche passo in avanti rapido e nervoso, e disse contemporaneamente il titolo del libro che le occorreva. 
Fu un sollievo, sebbene il tono fosse di una freddezza volutamente accentuata. Fui stupidamente felice di annunciarle che il libro che cercava era già in negozio e, mentre mi dirigevo allo scaffale sul quale ricordavo di averlo riposto, mi vidi riflesso nella vetrina con la felpa che mi aveva regalato proprio la mia ex. Maledii me stesso e fui assalito dall’imbarazzo più profondo; perché avevo deciso di indossare proprio quella maglia e proprio quel giorno? Con un sospiro profondo mi chinai per prendere il libro: dal sogno di quella notte avrei dovuto capire che la giornata non sarebbe stata delle migliori!
Cercai di tornare con la mente al periodo della crisi con la ragazza che adesso aspettava di là il libro che io tenevo tra le mani; per qualche assurdo motivo, le cause per cui l’avevo lasciata, che allora mi erano sembrate tanto serie, le sue colpe che mi erano apparse tanto gravi, ora non mi tornavano più alla memoria. Pensai seriamente che, con ogni probabilità, la crisi era stata solo mia ed era stata successivamente estesa al mondo intero. E a cosa mi serviva adesso quella consapevolezza? Per chiedere scusa era troppo tardi, io stesso mi sarei scoppiato a ridere in faccia di fronte ad una richiesta di scuse e dopo mi sarei preso a calci.
Quando tornai col libro, lei era ancora lì, in apparenza distratta, ma io lo sapevo benissimo a cosa stava pensando: all'assurdità di quelle coincidenze. Lei, però, era stoica e cercava di apparire impassibile a tutti i costi; quell'impassibilità, in tempi di crisi, era stata uno dei capi d’accusa ai quali mi ero appigliato per giustificare la mia crudeltà nel lasciarla di punto in bianco. E adesso succedeva che proprio quell'aria composta mi attirasse inspiegabilmente. Non appena lei posò di nuovo gli occhi su di me, la campanella della porta suonò una seconda volta.
- Eccoti amore! - esclamò il ragazzo alto e biondo che sembrò non accorgersi neppure di me.
Restai come inchiodato al pavimento con il libro nella mano destra, sospeso all’altezza della spalla. 
Lei sorriese al ragazzo appena entrato e gli andò incontro per baciarlo. 
- Scusa tesoro, ero venuta a chiedere di un libro - aggiunse dopo il bacio.
- E l’hai trovato questo libro? - le chiese il ragazzo che finalmente sembrò accorgersi di me che, da un lungo minuto, stavo lì impalato col libro in mano.
- L’ho trovato - mi decisi a dire al fine di affermare la mia presenza, per poi dirigermi velocemente alla cassa e svolgere quel compito che, ormai, avevo imparato a svolgere quasi meccanicamente. Alla fine, sotto gli occhi, che a me sembravano indagatori, dei due fidanzatini, misi il libro in una bustina trasparente che poggiai sul banco per evitare la possibilità del seppur minimo contatto. Nel farlo cercai di sorridere ma a ricambiare fu solo il ragazzo, evidentemente ignaro della mia identità. Lei restò seria tutto il tempo e, solo mentre si girava per andarsene, notai il lampo d’odio e di soddisfazione nei suoi occhi. Prese il fidanzato per mano ed uscì.
Attraverso il vetro della porta vidi i due che si allontanavano a passo lento. Mi sentii sollevato ma mi accorsi di essere completamente ricoperto di sudore. Nello zaino avevo una maglia di ricambio: andai in bagno, mi sfilai la felpa inzuppata di sudore e m’infilai la maglia leggera e pulita. 

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