mercoledì 20 marzo 2013

Bugie senza colpa: terzo risveglio


TERZO RISVEGLIO

Quando il trillo prolungato e lacerante della sveglia mi ferì le orecchie, allungai una mano sul comodino ma, ovviamente, non trovai nulla: la sera prima l’avevo preventivamente posizionata lontano dal letto al fine di costringermi ad alzarmi per poterla spegnere.
Le studiavo tutte per fregarmi da solo, perché il me stesso della mattina era un altro, un tizio inaffidabile che avrebbe fatto di tutto pur di non alzarsi dal letto, anche scaraventare la sveglia contro il muro, com'era già accaduto un paio di volte! Dovevo fregare me stesso ed alzarmi prima di iniziare a pensare troppo, prima che il mio cervello si fissasse sull'apparente assurdità della motivazione per la quale mi alzavo ogni mattina prima del dovuto, due ore prima della scuola, anche di domenica, anche con la pioggia o con la neve.
Saltai giù dal letto e corsi a spegnere la maledetta sveglia.
Uscendo dalla mia camera incrociai mio padre che si dirigeva, ancora mezzo addormentato, verso il bagno.
- Vorrei capire perché anche di domenica…- disse con aria di rassegnazione.
- Senso del dovere! – risposi, battendolo sul tempo e chiudendomi in bagno prima di lui.
Quando uscii, vidi dalla finestra le prime luci del giorno e la cosa mi diede coraggio: tornai saltellando in camera mia e mi vestii; guardai la rosa rossa nel vaso sulla scrivania per qualche secondo prima di prenderla delicatamente tra le mani e legarci, con un nastrino rosso anch’esso, il solito bigliettino sul quale scrissi il numero centoventitré. Questo significava una cosa ben precisa e cioè che quello era il centoventitreesimo giorno che mi alzavo alle sei di mattina per posare la stessa rosa (o almeno una sempre uguale) sulla finestra della stessa persona. E mi sentivo fortunato per il fatto che abitasse al piano terra e non mi fosse toccata in sorte anche la scalata!
Quando alzai lo sguardo, mi ritrovai ad osservare la mia immagine riflessa nel piccolo specchio appeso alla parete: avevo troppi brufoli sulla faccia, coperti appena da una peluria che non si decideva a diventare vera a propria barba, nonostante i miei diciotto anni. Mi sentivo troppo basso, troppo magro e sgraziato ed erano forse queste le ragioni per cui non avevo mai firmato i miei bigliettini sul davanzale. Se lei sapesse o no, lo ignoravo, fatto sta che, quando mi vedeva più tardi, a scuola, a stento mi salutava; ma io continuavo, mi ripetevo ogni mattina che l’amore non dipendeva dall'essere corrisposto o meno, l’amore era indipendente da queste cose, l’amore voleva solo amare, nient’altro… Questo mi ripetevo!
Uscii con la rosa tra le mani e in dieci minuti raggiunsi la fermata dell’autobus che passò quasi subito; com'era prevedibile a quell'ora, di domenica mattina, era quasi vuoto, fatta eccezione per una signora sulla cinquantina e una ragazza con gli occhiali che sembrava particolarmente assonnata.
Mi sedetti ai primi posti: sarei sceso di lì a un quarto d’ora e non ebbi il tempo di rilassarmi.
Scesi e mi incamminai sotto il cielo che, come mi accorsi solo allora, prometteva pioggia; la cosa non mi demoralizzò più di tanto e in pochi minuti arrivai a destinazione.
Già da lontano notai che c’era qualcosa di diverso, nel senso che sul davanzale, dove avrei dovuto mettere la solita rosa, c’era una busta gialla in bella vista.
Mi avvicinai, con le gambe che mi tremavano, e presi in mano la busta. Me la rigirai tra le dita, incurante del fatto che qualcuno potesse vedermi: in genere posavo la rosa e me la davo a gambe.
Aprii e tirai fuori il foglio ripiegato che c’era all'interno. Lessi: RISPARMIATI LE ROSE. NON MI INTERESSI!
Era scritto in stampatello maiuscolo con un pennarello nero ed occupava tutto il foglio.
Restai lì incredulo e rilessi più volte lo stesso messaggio chiaro e stringato.
- Vaffanculo! – pensai. Poi lo dissi anche ad alta voce, appallottolando rabbiosamente quel foglio insieme alla busta gialla. Buttai la palla di carta per terra e corsi via con la mia rosa ancora stretta nel pugno.
Centoventitré giorni! Centoventitré giorni della mia vita ad alzarmi alle sei per poi ricevere quella risposta! L’amore vuole solo amare e non ha la necessità di essere ricambiato, mi ripetei per la seconda volta quel giorno, e per la seconda volta dissi - Vaffanculo!
M’inoltrai tra le case del centro fino a raggiungere, senza nemmeno accorgermene, un parco con delle panchine, dove mi sedetti e trascorsi le ore successive. Sì, le ore, perché restai lì a pensare almeno tre ore, fino a quando non caddero le prime gocce di pioggia ed io mi decisi ad alzarmi, spezzando in due, nello stesso momento, la rosa che per tutto il tempo avevo tenuto tra le mani. La infilai nel primo cestino quando la pioggia già iniziava a battere più forte.
Uscii dal parco e mi ritrovai in pieno centro, tra la gente che scappava in cerca di un riparo o, in alternativa, apriva gli ombrelli; io appartenevo alla prima categoria, perché non avevo assolutamente pensato di portarmi dietro un ombrello.
Iniziai a correre senza sapere dove stessi andando esattamente e rallentai solamente di fronte ad una scena curiosa. C’era una ragazza, lì, in mezzo a tutta quella gente che correva, che sembrava godersi la pioggia senza troppi problemi: stava lì ferma con un libro in mano ed era già quasi tutta bagnata, come me d'altronde.
Per qualche assurdo motivo mi passò un pensiero per la mente: non avrei dovuto buttare la rosa! Se non l’avessi buttata, l’avrei potuta dare alla ragazza della pioggia, della quale, per un brevissimo istante, incrociai lo sguardo. Senza accorgermene mi ero addirittura fermato: due mondi immobili sotto una cascata d’acqua e tutta una serie di proiettili umani, sparati intorno a noi, che quella cascata d’acqua cercavano di evitarla ad ogni costo.
Sorrisi senza motivo per poi ridiventare anch'io uno di quei proiettili alla ricerca di un riparo; lo trovai, dopo un paio di minuti, sotto il terrazzino di una casa e restai lì fin quando la pioggia non divenne più sottile. A quel punto mi avviai alla fermata del pullman per tornarmene a casa mentre quella leggera pioggerella continuava ad entrarmi nelle ossa: mi stava raffreddando il cuore in qualche modo, lo sentivo e sentivo anche che, in quel momento, era come una benedizione.
Completamente fradicio salii sull'autobus e, arrivato a casa, mi spogliai e mi feci una doccia calda per scongelarmi i muscoli e il cervello; feci tutto con molta calma, nonostante fosse quasi ora di pranzo.
Una volta asciutto e vestito, invece di andare a tavola, me ne tornai in camera e mi misi a letto, perché avevo molte ore di sonno da recuperare, per non parlare delle ore di vita!

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