giovedì 12 luglio 2012

Il mito di Barthes

L'ideologia borghese trasforma continuamente i prodotti della storia in tipi essenziali; come la seppia che butta fuori il suo inchiostro per proteggersi, essa non cessa di oscurare la fabbricazione perpetua del mondo, di fissarla in oggetto di possesso infinito, di inventariare il proprio avere, di imbalsamarlo, di iniettare nel reale qualcosa di purificante che arresti la sua trasformazione, la sua fuga verso altre forme di esistenza. E questo avere, così fissato e congelato, diventerà alla fine computabile: la morale borghese sarà essenzialmente un'operazione di pesatura: le essenze saranno messe su bilance di cui l'uomo borghese resterà l'asta immobile. Perché il fine vero dei miti è di immobilizzare il mondo: bisogna che i miti suggeriscano e mimino un'economia universale che ha fissato una volta per tutte la gerarchia dei suoi possedimenti. Così, ogni giorno e dappertutto, l'uomo è fermato dai miti, rimandato da essi a quel prototipo immobile che vive al suo posto, lo soffoca come un immenso parassita interno, e alla sua attività traccia stretti confini entro cui gli è concesso soffrire senza muovere il mondo: la pseudo-physis borghese è integralmente un divieto all'uomo di inventarsi. I miti non sono altro che questa sollecitazione incessante, instancabile, questa esigenza insidiosa e inflessibile secondo cui tutti gli uomini si dovrebbero riconoscere in quella immagine eterna, e tuttavia situata nel tempo, che di essi un giorno è stata costruita come se destinata a valere per sempre. Perché la Natura in cui li si richiude sotto pretesto di eternarli è solo un "uso". E proprio quest'uso, per grande che sia, essi devono prendere in mano per trasformarlo.
Questo era Roland Barthes, in una delle descrizioni del concetto di mito fornita in Miti d'oggi. Lo scritto risale agli anni Cinquanta del Novecento, ma non ci vuole molto ad applicare una descrizione del genere all'uomo di oggi. Nuovi miti, stesso meccanismo, stesso deleterio risultato: la paralisi.
Paralizzare il mondo vuol dire renderlo controllabile mediante una riduzione all'ovvio, perché ciò che è ovvio dà sicurezza e non induce a porsi domande e a pensare più del dovuto. Ciò che è naturale, anche se falsamente naturale, è accettato in maniera a-problematica; viceversa, tutto ciò che si scosta da questa pseudo-naturalità, è rifiutato, nello stesso modo a-problematico ovviamente.
Termino qui le mie brevi considerazioni che, per la chiarezza del passo di Barthes, risultano anche inutili.

2 commenti:

  1. Utile il post per comprendere sempre meglio Benjamin e la sua epoca, ed ecco perché Nietzsche scriveva sull'Oltreuomo (il diverso) aldilà del tipico borghese per far si che la ripetizione del tempo infernale dell'eterno ritorno cessasse in modo che nella fenditura del tempo s'insinuasse il risveglio delle masse. E volendo gli uomini politici e l'informazione dovrebbero essere nelle mani di questo "diverso" (il filosofo) per dar voce ad un vero progresso basato sul nuovo e non sul vecchio. Eh si sono un utopista!?!

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    1. Credo anch'io che il problema sia lo stesso affrontato da Benjamin e da Nietzsche prima di di lui, anche se in modi attinenti alle personalità dei singoli pensatori... Per "svegliarsi" dal mito, però, non credo si debbe essere necessariamente filosofi, basterebbe molto meno, forse un po' di attenzione in più alla realtà che ci circonda...

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