sabato 18 febbraio 2012

Sull'immortalità

Essere immortale è cosa da poco: tranne l'uomo tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali (J. L. Borges - L'immortale in L'Aleph)
Qualche giorno fa mi sono imbattuta in questa frase, leggendo il primo di una serie di racconti di Borges.
Ho sempre pensato all'immortalità come a qualcosa di terribile, una specie di condanna o un inferno in terra la cui pena preveda di veder morire, una dopo l'altra, tutte le persone che si amano... 
L'uomo è l'unico animale capace di autocoscienza e, pertanto, l'unico che sia consapevole della propria morte, l'unico, in altri termini, che si sappia mortale; la consapevolezza della propria mortalità tormenta l'uomo da sempre, ma credo costituisca anche la sola ragione per cui l'uomo si sveglia ogni mattina da migliaia e migliaia di anni, lavora, studia, ama, costruisce, distrugge e ricrea. 
Immaginiamoci immortali: la consapevolezza della nostra immortalità, di una non fine alla nostra vita, ci indurrebbe probabilmente a non alzare un dito per secoli. Chi si alzerebbe dal letto, sapendo che ha tutta l'eternità davanti per fare ciò che vuole? Chi penserebbe ai posteri se i posteri fossimo noi stessi? Se ciò che si fa, lo si fa per migliorare la vita, cosa ci sarebbe da migliorare in una vita che non può finire, una vita senza mali fisici da evitare? Molti dei nostri sforzi sono volti ad allontanare la morte o anche solo il suo pensiero: cosa ci sarebbe da allontanare se la morte non ci fosse? Per quanto possa suonare strano si vive perché si muore, è la morte a dare un senso alla vita in quanto suo punto terminale.
Sapersi immortale sarebbe una maledizione tollerabile solo da un dio...

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